Non mancano certo, tra noi, le voci allarmate di chi si interroga su che cosa sta inquinando l’atmosfera e la funzionalità delle nostre scuole: A. Monardo, Lettera aperta ai colleghi, “insegnare”, 06.02.2018; E. Ena e P. Limone, Che cosa sta succedendo?, “insegnare”, 13.02.2018; M. G. Calì, Dov’è l’insegnante?, “insegnare”, 08.03.2018.
Da mesi ci chiediamo allarmati "Che cosa sta accadendo"? Perché la scuola sembra travolta da un processo involutivo che ne sta minando finalità strategiche e funzionalità quotidiana? Perché così spesso ci sembra che, a fronte di situazioni di crisi o di inefficienza, le soluzioni proposte appaiano di gran lunga peggiori dei mali, o ci competano almeno alla pari?
Forse è venuto il momento di cominciare a darsi anche delle risposte e soprattutto di cominciare a ipotizzare scelte e comportamenti radicalmente diversi da quelli che hanno pervaso la politica scolastica da tempi più o meno lunghi, a seconda delle interpretazioni storiche, ma quanto meno - e su questo concordano molti - almeno dal 1997, ovvero dall'approvazione della legge sull'autonomia, sia che si consideri quello stesso provvedimento causa dei mali successivi, sia che il peggio che ne è seguito sia attribuito più alla sua pessima non-applicazione che ai suoi limiti in sé.
Fra i ragionamenti possibili attorno alla crisi della scuola italiana è forse anche necessario chiedersi in che rapporto stiano le scelte compiute in questi anni con le Raccomandazioni e le scelte politiche comunitarie. È indubbio che anche per la scuola sia legittimo chiedersi se e in che misura gli Stati membri godano o meno di autonomia decisionale, se e in che misura Raccomandazioni e scelte europee abbiano condizionato o meno la politica scolastica di questi anni; se e in che misura i provvedimenti che noi riteniamo essenziali per migliorare il sistema scolastico siano o meno compatibili con le scelte comunitarie; se e quanto di converso provvedimenti che abbiamo ritenuto sbagliati o improvvidi dipendano da quelle scelte.
Spesso, in questi anni, anche su questioni di politica scolastica ci siamo sentiti ripetere, "Lo vuole l'Europa!". Appare venuto il momento di chiedersi se le cose stiano proprio così.
Sui rapporti fra Europa e scelte politiche nazionali, si veda R. Maggio, Brexit, Democrazia, costituzionalismo, istruzione, "insegnare", 01.07.2016
Lo facciamo ripercorrendo per sommi capi alcuni aspetti di estrema rilevanza del funzionamento del sistema scolastico e delle scelte culturali, di sicuro non con la pretesa di avere su questi temi soluzioni certe, ma con la ferma convinzione che sarebbe necessario riprendere su ciascuno di loro l'elaborazione e una proficua inversione di tendenza. E lo facciamo anche ricordando, su alcuni di questi temi, il percorso di riflessioni che abbiamo tracciato nel tempo e che spesso è stato disatteso, coi bei risultati che abbiamo ora di fronte.
Di certo ricordiamo tutti che sul finire degli anni Novanta, quando l'Europa si apprestava a muovere i suoi passi più decisivi anche in fatto di rapporti fra economia e società, ci si ripeteva una sorta di dogma programmatico, quasi un mantra salvifico: "Dobbiamo costruire un'Europa delle culture [si noti il plurale] e dei popoli e non dei mercati e della cancellerie". Qualcuno diceva e non "solo" dei mercati. E non si trattava di una differenza di poco conto.
Come sia andata a finire lo sappiamo e in queste ore la questione è drammaticamente di attualità nel nostro Paese. Per questo val la pena riproporre per sommi capi i nodi cruciali del rapporto fra scuola italiana ed Europa, anche perché forse esso costituisce in filigrana una buona cartina al tornasole del rapporto con le politiche comunitarie anche su ben altre questioni. E veniamo ad alcuni aspetti importanti.
Sul plurilinguismo e l'insegnamento delle lingue straniere in Italia e in Europa, si veda il contributo di M. Cavalli, L'insegnamento delle lingue straniere a scuola in Italia, "insegnare", 25.01.2014.
Plurilinguismo e intercultura
La prima questione è di natura linguistica e culturale e contrappone la scelta e la prospettiva di una scuola (e di una Europa) orientata al plurilinguismo, al confronto fra le culture, al pluralismo delle identità, contrapposta a una scuola (e una Europa) che sceglie l'anglismo tecnocommerciale come lingua egemone, viatico al lavoro e al dialogo sovranazionale.
Questo dualismo presenta in seno agli stessi organismi comunitari una interessante contrapposizione fra Unione Europea e Consiglio d'Europa e le rispettive prospettive e politiche linguistiche.
Sui presupposti e le pratiche delle scelte pedagogiche interculturali, si veda la recensione di A. C. Lugarini a M. Giusti, Teorie e metodi di pedagogia interculturale, "insegnare", 02.09.17, e l'intervento di A. Tredicine, “Non sono un ospite speciale”. La lezione di C., "insegnare", 28.10.2016
Qui non si tratta tanto di scegliere fra Europa SI o Europa NO, ma quale Europa, quale orientamento riteniamo più adatto a costruire la società del futuro: infatti se l'Unione Europea si è attestata sulla prospettiva "lingua materna più due lingue straniere", gli orientamenti che emergono dal Consiglio d'Europa si possono sintetizzare in "educazione plurilingue e interculturale". Va da sé che la scelta non è solo linguistica, ma sottintende una certa idea di società e di sviluppo umano.
La scelta di un vassallaggio anglofilo, che in Italia ha recentemente scosso anche gli istituti preposti alla conservazione e alla valorizzazione della lingua madre, è figlia di una malintesa concezione del progresso. Del resto, abbiamo ricordato spesso che la "i" di "inglese" è parte di quel trittico con "internet" e "imprenditorialità" che da anni condiziona e inquina l'orizzonte dei sistemi formativi europei. E certamente quelli, come il nostro, che non vi si sono accodati con solerte e miope obbedienza.
Su inglese, imprenditorialità, scelte strategiche del sistema e politiche europee si veda anche il recente editoriale M. Ambel, La scuola in svendita, "insegnare" 06.05.2018.
Tra l'altro, la scelta dell'inglese come lingua degli scambi internazionali, oltre alle implicazioni restrittive rispetto a scelte culturali più coraggiose e complesse in tempo di forti migrazioni planetarie, è tanto più imbarazzante dopo che la Gran Bretagna ha deciso di uscire dall'Europa, dove alcuni si sono trovati ad esaltare l'uso comune di una lingua il cui paese d'origine si è nel frattempo sottratto a responsabilità comunitarie.
La valutazione del sistema
Si apre qui un capitolo assai dolente e sul quale si prova ormai persino imbarazzo a denunciare la gravità delle storture indotte nella scuola, a fronte della ottusità o dell'ipocrisia con cui i fautori della valutazione come regolatore del sistema si ostinano a neppure vedere i danni che stanno provocando.
Abbiamo più volte denunciato i guasti apportati alla scuola da una esasperazione delle attese e delle pratiche valutative. In questi ultimi anni in particolare la pessima gestione nostrana della dialettica fra ricerca-apprendimento-valutazione ha trascinato la scuola in una ossessione misurativa che ne ha esasperato l'atmosfera quotidiana, inquinato la concezione stessa delle procedure didattiche, stremato in defatiganti protocolli descrittivi la progettazione educativa e la stessa valutazione formativa, insospettito e incattivito le relazioni professionali.
Ormai sembra impossibile poter rivendicare che in un progetto educativo sano si compete con se stessi per migliorare e non con e contro gli altri per primeggiare. La pervasività di modelli culturali orientati a visioni ormai quasi darwuiniane della meritocrazia e della competitività, ma soprattutto le ansie da prestazione indotte da una società in cui crescono le diseguaglianze e la competizione individuale rendono assai complesso realizzare progetti educativi autenticamente democratici e perequativi.
In un simile contesto, scelte sciagurate come la reintroduzione dei voti decimali o l'ipocrisia della ormai conclamata convivenza fra voti e giudizi descrittivi, che perdono così ogni valenza formativa per divenire il cartellino giustificativo dell'avvenuta misurazione di ciascuno e delle sue prestazioni in rapporto agli altri, stanno vanificando decenni di faticoso orientamento verso una scuola della cooperazione e della crescita comune.
Da anni insistiamo su questo aspetto con una serie ormai inusitata di contributi. Di tutto quanto prodotto, segnaliamo, tra i contributi più recenti e riassuntivi, l'intervento di C. Gammaldi, Antefatti passati e misfatti recenti in tema di valutazione, "insegnare", 01.12.2017 e lo speciale dedicato tempo fa, all'Invalsi, in un momento in cui un significativo cambio ai vertici aveva fatto sperare in una inversione di tendenza e di prospettive, che è stata poi vanificata da immutate concezioni politiche sulle finalità dell'Istituto: Articoli dello "Speciale" Invalsi, "insegnare", 01.2014.
Sempre sulla valutazione è molto utile ripersorrere gli interventi di B. Vertecchi, M. Ambel e B. Losito ai Seminari sulla valutazione. Per continuare a insegnare e ad apprendere, organizzati dal Cidi Cosenza nel marzo 2018.
A tutto questo andrebbe aggiunto l'uso maldestro delle indagini internazionali e l'ormai pluridecennale gestione dell'INVALSI, che non può e non riesce a diventare una componente efficace della valutazione e regolazione del sistema, ma continua ad essere asservito a contraddittorie e controproducenti logiche di valutazione (ora addirittura di certificazione) degli apprendimenti. Con conseguenze nefaste sull'attività didattica, che vanno ormai ben al di là delle sue intenzioni, dei suoi errori e delle stesse indicazioni normative, che come sappiamo sconsigliano pratiche addestrative alle prove, cui invece la scuola continua a piegarsi o a essere indotta da fattori esterni e dall'editoria scolastica.
In tutto questo l'Europa ha le sue responsabilità ma i limiti della gestione degli apparati intermedi nostrani (ministri e dirigenti scolastici e tecnici in primis) sono assai gravi, come imbarazzante è la passività acquiescente di troppi docenti.
Di fatto le raccomandazioni e le pressioni di natura comunitaria valgono più per la valutazione e l'autovalutazione diacronica del sistema e delle sue componenti e per la rendicontazione sociale del funzionamento che non per la valutazione comparativa, su scala sincronica, degli apprendimenti degli allievi, che è invece una patologica e riduttiva versione nostrana. Anche qui una cattiva gestione autoctona accentua orientamenti comunitari che si potrebbero applicare in modo meno autolesionista.
Le competenze e la cittadinanza
Last but not least. Su queste due tematiche, ormai spesso portate a sintesi in un'unica formulazione, si è di fatto consumata e concretizzata la sconfitta più grave e preoccupante: trasformare una occasione di rinnovamento profondo delle finalità, dei contenuti e delle metodologie didattiche in un progressivo asservimento delle finalità educative alla realtà esistente, e della stessa idea di cittadinanza a una concezione economicistica della vita, del lavoro, della convivenza civile. A poco valgono le belle intenzioni espresse in documenti come “Indicazioni Nazionali e Nuovi Scenari” se poi le scelte di politica scolastica e le pratiche didattiche auspicate o indotte vanno un tutt'altra direzione.
Noi combattiamo da anni una estenuante battaglia per le "competenze culturali di cittadinanza", mentre la scuola continua a ritrovarsi (e a lasciarsi ritrovare) fra l'incudine refrattaria e passatista di chi si ostina a contrapporre conoscenze e competenze a vantaggio delle prime, e il martello di chi da decenni invade la scuola di competenze sedicenti trasversali, adattive nei confronti della realtà esistente e dei suoi compitini, e al contempo trasferibili da un contesto all'altro purché a carico della libera imprenditorialità dei singoli e non degli obblighi di coerenza e del rispetto dei diritti di chi gestisce quei contesti di lavoro e di vita.
Il Cidi nazionale organizzò nel 2004 a Genova un convegno dal titolo "Quale scuola per l'Europa?": basterebbe scorrere l'elenco di alcune relazioni per cogliere prospettive e preoccupazioni da cui ci si muoveva: Marco Revelli ("Il mondo dopo la fine del vecchio mondo"), Umberto Morelli ("Le prospettive dell’integrazione europea"), Elena Paciotti ("Cultura e società nella Costituzione Europea"), Mario Ambel ("Perché ragionare di competenze?"), Anne Pirrie ("Le competenze di base per i cittadini europei"), Emma Nardi ("Criteri per la valutazione: occupazione o cittadinanza?"), Giunio Luzzatto ("Scuola, università e ricerca"). Significativi anche i temi dicotomici proposti attorno alle "sfide" da affrontare: Tecnologia e lavoro (Luciano Gallino), Modernità ed esclusione (Dario Missaglia), Cultura e Cittadinanza (Edoardo Sanguineti), Una scuola per tutta la vita (Alba Sasso).
Domenico Chiesa, allora Presidente nazionale del Cidi, propose nella relazione introduttiva un "patto nella società civile che nasce dall’Italia e che si vorrebbe europeo per fare di scuola, università e ricerca l’asse centrale di ogni politica".
Sui rapporti fra politica scolastica e contemporaneità si può leggere A. Sasso, Contemporaneità, cultura della scuola e cittadinanza, "insegnare", 15.05.2018.
Abbiamo cominciato questa battaglia tanto tempo fa, quando si è iniziato a ragionare più stabilmente di rapporti fra Europa e idea di scuola. È opportuno segnalare che l'idea di Europa, di scuola e di società che avevamo allora e alimentava prospettive e speranze è stata pressoché sistematicamente disattesa sia dalle scelte strategiche della Unione Europea che dalle applicazioni nostrane, anche quando la responsabilità di applicarle e renderle possibili sono toccate a forze politiche che quelle speranze e quelle prospettive avevano contribuito a elaborare.
Auspicammo allora un patto europeo "per fare di scuola, università e ricerca l’asse centrale di ogni politica". Non solo l'asse centrale di ogni politica europea è stato tutt'altro, ma le stesse scuola, università e ricerca non sono mai state capaci di realizzare sinergie tali da avviare e consolidare, se non altro, una decente formazione degli insegnanti, che sarebbe già una buona cosa.
E poi abbiamo proseguito la battaglia nel tempo, cercando in particolare di salvaguardare un rapporto stretto fra sapere disciplinare, competenze del soggetto, prospettive di cittadinanza. Certo la nostra visione di questi rapporti non è quella che sta in filigrana di tante iniziative di altri soggetti ed enti, che ben più significativamente hanno orientato le politiche comunitarie e nazionali. Per esempio, quelle raccolte nell'agile ma intenso volume Una scuola più europea per la competitività e la cittadinanza attiva, Atti del Convegno della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro e della Associazione Treelle, Fondazione Cini, Venezia, 2013.
A noi appare dissonante coniugare competitività e cittadinanza attiva, invece questo è stato il diktat, la visione di Europa, di società e di umanità, che ha dominato le scene, le gazzette e purtroppo spesso anche il ministero dell'istruzione e molte aule scolastiche, spesso scisse fra scuole di base che inseguono e perseguono una "cittadinanza attiva" fatta di integrazione, confronto interculturale, legalità, lotta allo spreco e alle disuguaglianze, e scuola superiore che ripropone e incarna separazioni di scelte e prospettive di vita, competitività, disgregazione sociale, abbandono scolastico e dispersione, perenne spaccatura fra chi dovrebbe accedere alla conoscenza come strumento di giudizio critico e chi deve prepararsi a un lavoro che non c'è.
Sull'alternanza scuola-lavoro si possono leggere i recenti interventi di C. Palumbo, Ragioniamo di alternanza scuola-lavoro, "insegnare", 13.02.2018 e segg e D. Chiesa, Per un'alternativa all'alternanza scuola-lavoro, "insegnare", 07.03.2018.
È la separazione di sempre, sancita dai nuovi ordinamenti gelminiani del 2011, su cui si è innestata ora la gestione spesso strumentale e sostanzialmente ipocrita dell'alternanza scuola-lavoro, che - anche quando funziona - o confonde e rinomina come "lavoro" attività da sempre attuate nelle scuole in rapporto con il mondo esterno, di natura culturale (soprattutto nei licei) o preprofessionale (nei tecnici e professionali), che non avevano e non hanno alcun bisogno di essere incentivate e snaturate con la promessa di sgravi fiscali alle imprese ospitanti.
Recentemente, nel nostro paese, è stata riaperta una vecchia diatriba sul senso della scuola, a cui abbiamo risposto con alcuni interventi raccolti nello speciale Di nuovo conoscenze vs competenze!, insegnare", 27.03.2018 e ricordando il lavoro svolto nei dossier di insegnare a cura di M. Ambel e D. Chiesa, Competenze culturali per la cittadinanza, n. 1/2007; Autori Vari, Il profilo di uscita del soggetto competente, n. 3/2011.
Non stupisce che in questa visione strumentale e funzionale al mercato delle finalità educative abbia ripreso forza una concezione idealistica del sapere e della conoscenza scolastica, che nel negare dignità al concetto di competenza, in quanto troppo asservito a finalità competitive e di spendibilità, finisce col ridare legittimità e valore a una cultura che non farebbe che confermare le barriere sociali esistenti fra chi vi nasce immerso e chi proviene da altri contesti o da altri mondi. A distanza di cinquantanni da quel 1968 di cui ricorre quest'anno un malcelato o rimosso anniversario, coloro che si opposero alla scuola di classe - lavorandoci dentro e non facendo altre scelte - in nome di una realtà, che era in tal senso eversiva e che doveva avere la forza di capovolgerne le logiche e le antiche disuguaglianze, entrando di prepotenza nelle aule accademiche e scolastiche, si ritrovano invece a combattere contro una realtà, che è in tal senso adattiva, che ha invaso le scuole portandovi le sue logiche di competizione sociale, arrivismo, affermazione individuale.
In tal senso, attorno al concetto di "competenza" si è persa la battaglia per una affermazione della centralità dei soggetti che apprendono e di una trasformazione delle aule in ambienti funzionali all'apprendimento. Per questo, abbiamo già ricordato le tre "i" presenti in quell'elenco di life skills per la vita adulta che l'insipienza nostrana ha tratto dalle "Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006, relativa a competenze chiave per l'apprendimento permanente" e ne ha fatto il profilo programmatico della scuola di base e il conseguente modello di certificazione delle compenze acquisite, delineando i tratti di un futuro cittadino europeo che si barcamena fra adeguamento a opache trasversalità e banali compitini di realtà, invece di mirare a solide basi di uno spirito critico e spessore culturale.
E a peggiorare la situazione c'è anche l'altra deriva limitante, quella che riguarda la stessa cittadinanza, che assume ora i tratti neocomportamentisti del buon cittadino confondendosi con la condotta, ora assorbe in una nuova presunta disciplina senza epistemologia e spessore conoscitivo critico la negazione o il presunto superamento dei saperi che storicamente potevano contribuire a formare il cittadino: la storia (da sempre assente negli elenchi comunitari di competenze di base), il diritto, la filosofia. Senza contare la letteratura e le arti sempre in bilico fra pulsioni identitarie e sfruttamento commerciale.
In tutto questo è difficile dire quanto ci fosse di inevitabile nella Raccomandazione europea e quanto invece ci si sia messo del nostro. Certo ha pesato la visione complessiva di società e di rapporti sociali che aleggia attorno al pensiero unico economicistico, spesso veicolato dall'Unione Europea, ma la scuola italiana ne ha fatto per lo più occasione di adempimento burocratico, senza interrogarsi sulle reali implicazioni culturali di quell'elenco che ormai stancamente si ritrova nel rituale retorico e vuoto della cittadinanza europea.
Il 1997: spartiacque o continuità?
A partire dal 1997, dall'improvvido orientamento dato all'Autonomia, questo processo di applicazione maldestra e peggiorativa delle raccomandazioni comunitarie è diventato il vero motore della politica scolastica nostrana. E su questo terreno non abbiamo neppure l'alibi di un debito pubblico da scontare o il ricatto dei mercati da subire. Anzi, potremmo esercitare il peso di una tradizione culturale importante se non ne avessimo fatto solo il vessillo di una improduttiva nostalgia.
Sulla lotta alle disuguaglianze e le responsabilità della politica, si può ascoltare l'intervento di B. Bagni, Se cresce la scuola cresce il Paese, audizione parlamentare al Ddl 2994, "insegnare", 13.04.2015.
Sui limiti e gli errori della politica scolastica degli ultimi vent'anni, ma anche sulle possibili vie di uscita, si vedano M. Ambel, La sopravvivenza della scuola, "insegnare", 20.04.2017 e A. Palmieri, Tempo, Spazio e Relazioni per una scuola democratica e inclusiva, "insegnare", 16.01.2018.
Marco Guastavigna ha recentemente ricordato che la storia delle involuzioni o delle speranze tradite nella costruzione di una scuola pubblica di massa non ha solo 20 anni, ma che va retrodatata: cfr. Vent’anni dopo, a gamba tesa, "insegnare", 29.05.2018.
Ma è anche vero che la storia della scuola repubblicana presenta anche una più lunga tradizione di speranze tradite o solo in parte realizzate: la riforma della scuola media unica (1962-63), I Decreti delegati (1974), l'autonomia (1997), l'innalzamento burla dell'obbligo (2007)... tante tappe di una storia, svolte che forse potevano andare in un certo modo e invece sono andate in tutt'altro. Per questo la legge sull'Autonomia è al contempo l'ultima possibilità di una storia di sconfitte o di affermazioni incompiute dell'idea di scuola "statale" democratica e perequativa, orientata all'art. 3 della nostra Costituzione, e la prima di una progressiva affermazione di una scuola "pubblica" con pulsioni privatistiche, funzionale allo sviluppo economico, e via via asservita alle regole del mercato, orientata all'art.33 e non più all'art. 3 della Costituzione.
Il prevalere dell'autonomia della competitività e del merito su quella dell'inclusione e della cooperazione è uno dei passaggi cruciali di questa lunga storia delle speranze perdute della scuola italiana che non ha mai saputo trasformare le sue potenzialità idealistiche in virtù autenticamente democratiche restando ancillare a un sistema economico e occupazionale nel frattempo sempre più asfittico e deficitario. E senza riuscire a sconfiggere dispersione e disuguaglianze profonde interne al sistema.
Se prima la crescita economica e poi l'espansione del debito pubblico avevano fatto da calmiere della incompiutezza democratica della scuola, gli anni della crisi e della spending review ne hanno drammaticamente fatto implodere le inefficienze e le contraddizioni.
La salvano solo qui e là la dedizione di chi vi lavora con onestà e spirito di servizio istituzionale. Ma anche questo comincia a non bastare più.