Quale platea più adatta di Facebook poteva trovare il “personaggio politico” Lucia Azzolina il 18 dicembre intorno alle 11 per parlare di “Nuovi fondi per la digitalizzazione nelle scuole. Nella legge di Bilancio 2021 è previsto un investimento di 40 milioni di euro in più sulla digitalizzazione, insieme allo stanziamento di ulteriori specifiche risorse per potenziare l’azione amministrativa e didattica nelle scuole anche attraverso l’utilizzo degli animatori digitali (…) In questa direzione va anche il lavoro che stiamo portando avanti al Ministero per mettere a disposizione delle scuole, dal prossimo anno scolastico, una piattaforma digitale unica, contenente tutti i servizi e le funzionalità utili per le scuole, compresi gli strumenti per la didattica digitale”.
In poche righe ritorna il triste campionario delle parole-ombrello che costituiscono la costante delle comunicazioni ministeriali, ma anche – ahimè – di troppi di coloro che pensano di collocarsi nella zona del pensiero radicalmente alternativo.
Si aggiunge però una piccola grande novità: la “piattaforma nazionale di accompagnamento e supporto”, già annunciata in precedenza ai parlamentari, diventa infatti “unica” e destinata a contenere ogni servizio e ogni funzionalità utile alle scuole e alla (immancabile) “didattica digitale”.
Ad accelerare il compiaciutissimo annuncio è stato probabilmente il recentissimo crash di Google, mentre non riesco davvero a credere che abbia influito la minaccia di reclami di tipo professionale contenuta nella lettera aperta di un gruppo di docenti universitari.
Un’infrastruttura pubblica e aperta, infatti, è un urgente obiettivo politico-culturale di ampio respiro, non una motivazione settoriale per una sorta di class action degli addetti ai lavori.
Riguarda piuttosto l’intera cittadinanza, perché realizzarla e – soprattutto – regolarla nella direzione dell’interesse culturale generale significherebbe restituire la sovranità sull’istruzione al controllo democratico, emancipandola dall’egemonia operativa e culturale del capitalismo delle piattaforme.
A queste condizioni, per altro, non è affatto necessario che l’infrastruttura sia “unica”, tanto meno “nazionale”. Può assolutamente essere articolata, agile, modulare. L’importante è che non sia “ministeriale”, ovvero l’ennesimo frutto di decisioni ristrette ai tecno-burocrati che hanno imperversato a partire dal primo vagito del Programma di Sviluppo delle Tecnologie Didattiche – era il 1997 –, mettendo ad ogni passo le istituzioni scolastiche e gli insegnanti di fronte a scelte compiute, che si potevano solo accettare o respingere in toto, con conseguente esclusione.
Se non abbiamo la forza di reagire con una campagna di demistificazione e di rivendicazione, la medesima logica incombe però anche ora: animatori digitali, équipe formative territoriali e – soprattutto – lavoro di progettazione soltanto al Ministero.
Approccio di nuovo centralistico, insomma, che questa volta si auto-attribuisce il compito (e prima ancora la capacità) di selezionare quali servizi e quali funzionalità implementare. E continua a vedere la formazione come mero adattamento a percorsi prefissati e ad attività predefinite, posizione davvero paradossale dopo la vicenda (tuttora in pieno corso) del distanziamento emergenziale delle pratiche didattiche mediante logistica digitale, processo su cui si sono susseguiti proclami e polemiche, ma su cui non è stato condotto alcun monitoraggio statisticamente fondato e affidato a soggetti istituzionali autenticamente terzi rispetto alle azioni intraprese. E di cui non si sono quindi davvero compresi esiti, risultati, aspetti critici, possibilità di intervento.
Come sempre, tra l’altro, è del tutto ignorata l’esistenza del consorzio Garr, il cui allargamento quantitativo e funzionale potrebbe costituire invece una prima e promettente pista di analisi e di riflessione. Sono in molti, ad esempio, a proporre l’utilizzo di software libero e aperto; questa idea non è però solo un dettaglio tecnico con conseguenze sulle previsioni di spesa, questa impostazione etica ha implicazioni assai più ampie.
Un’infrastruttura destinata a scuola e università deve infatti essere concepita e praticata fin dal momento della sua progettazione come luogo e strumento di conoscenza con finalità sociali. E quindi essere esplicitamente e sempre spazio pubblico di cooperazione, scambio, confronto non competitivo, diffusione, redistribuzione, inclusione, che rifiuta – oltre a profilazione con fini di lucro degli utenti, brevetti privilegiati e segreto industriale – l’assioma di fondo dell’impostazione tecnocratica, il diritto esclusivo di interpretare le situazioni e di fissare gli obiettivi, sostituendola con la discussione tra tutti coloro che sono interessati e quindi con la negoziazione di servizi e attività, con la loro verifica e con gli adattamenti che si rendessero necessari alla prova dei fatti.
Abbiamo davvero molto su cui vigilare e fare proposte.