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05/11/2022

Il merito non si addice alla scuola

di Mario Ambel

 È un po' più lungo di un post su fb: mettetevi sedute/i. Grazie.

Il dibattito. In fondo è naturale che in un paese afflitto da pratiche pervasive di nepotismo, clientele, piccoli e grandi privilegi e impunità di ogni tipo, il merito susciti un moto di interesse, assurgendo a simbolo salvifico di piccole e grandi ansie di riscatto. In un paese dove “merito” -  spesso proprio negli ambiti che se ne fanno paladini: l’accademia, la politica, il mercato del lavoro - si coniuga tendenzialmente assai più con privilegio (che sarebbe in realtà il suo contrapposto) che con equità (che gli si oppone per altri versi), il merito è l’emblema più rappresentativo del mito del contrasto ai privilegi di casta, attraverso la competizione sana e governata da regole certe e condivise e da condizioni paritetiche di partenza, così come l’eguaglianza è l’emblema più rappresentativo del mito della eguale dignità e integrità degli esseri umani, indipendentemente dalle condizioni di nascita, dai contesti di crescita e dagli esiti inevitabilmente diversificati che ne derivano. In fondo la navigazione umana nelle democrazie occidentali si muove fra questi due opposti, spesso in acque tempestose. Trovare un equilibrio soddisfacente non è certamente facile. Ma è di certo il dovere primo degli stati democratici fondati sul diritto e sull’eguaglianza della legge per tutti.
Mi interessa qui solo in parte ragionare attorno a che cosa sia, a come vada intesa e giudicata la categoria generale del “merito”, ovvero se sia una garanzia o un sovvertimento dei suoi complementari e antagonisti dialettici, il privilegio e l’eguaglianza.

Per il dibattito recente su questi temi si veda la nostra Rassegna stampa sul merito e in particolare la nota bibliografica su studi e testi saggistici lì riportata. 

Al riguardo esiste una ricca bibliografia e, a onor del vero, per onestà intellettuale, anche i fautori del merito devono riconoscere che, nella letteratura sul tema, le riserve, le preoccupazioni e le perplessità, anche tra i fautori, prevalgono di gran lunga sulle propensioni e men che meno sugli entusiasmi.
Non così nel dibattito politico e giornalistico, dove il merito, soprattutto dopo la vittoria del centrodestra, ha fatto rifiorire schiere di fautori, facendone persino uno strumento di lotta alle disuguaglianze sociali e "al classismo". 

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Il merito e i diversi contesti. Tralasciando un attimo la politica, che ha un modo inevitabilmente di parte e spesso pregiudiziale di trattare concetti e prospettive, certo è considerevole la schiera degli intellettuali, degli opinion maker e dei maitre a penser che sui maggiori quotidiani, nelle riviste, sui social si sono schierati dall’una o dall’altra parte, a difesa o a condanna (nel complesso più a favore) dell’impiego del merito come principio ispiratore e categoria interpretativa delle finalità e delle pratiche della scuola pubblica. Perché di questo si tratta o si sarebbe dovuto trattare.
Può essere interessante analizzare la validità del merito come categoria giuridica, sociologica, psicologica, organizzativa, gestionale. Ma il mio è un problema diverso e potrei esprimerlo così: la categoria del merito, comunque la si intenda, è applicabile alla scuola? Direi di più: è pertinente con la scuola? Ovvero, mi chiedo se è applicabile alla scuola, ancor prima di valutare se il farlo crea vantaggi (come vorrebbero i fautori) o danni (come sostengono i detrattori).

Lo dico per ricordare che all’origine del contendere c’è la denominazione del Ministero dell’Istruzione e quindi la sua identità e i suoi fini e non quelle della convivenza civile  nel suo complesso, oppure di un condominio o di una azienda o di una squadra di calcio o di una compagnia teatrale o di una gara in un qualsiasi ambito che preveda alla fine vincitori e vinti e relativi premi e retrocessioni. Lo dico anche perché, a mio parere, non è opportuno applicare la categoria del “merito” in modo eguale a questi diversi contesti, a meno che la si consideri una sorta di valore universale, come il diritto alla vita, alla salute, alla libertà personale e che quindi sia applicabile in modo efficace e coerente a ogni contesto, salva la restrizione del non recar danno ad altri. E anche qui sarebbe interessante chiedersi se la categoria del merito, anche qualora equamente applicata, ancorché sia possibile, sia tale da recare o non recare (ulteriore) danno a chi “non è giudicato meritevole”.  
E dunque questa è la prima questione da porre: la categoria del merito è universale e non contrattabile, non relativizzabile ai diversi contesti, oppure no? Perché talvolta si ha la sensazione che i difensori del merito ne facciano una sorta di categoria universale da cui discendano conseguenze applicabili indifferentemente a ogni contesto del consorzio umano. Ma così non è. Se, nel quadro di regole che governano il calcio professionistico, per esempio, è auspicabile che in campo scendano gli undici che in quel momento l’allenatore reputa più meritevoli di giocare e se è legittimo (o comprensibile) che quelli fra loro che rendono di più in termini economici alla società siano pagati meglio, non è detto che, nella squadra di dilettanti che giocano per il piacere di farlo e senza far molto conto sul risultato e i guadagni, non sia il caso che ogni tanto giochino anche i meno bravi e redditizi. Che magari, così, migliorano anche un po'. Dipende da che cosa ci si prefigge dallo scendere in campo.

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La Costituzione. A proposito di diritti universali, il ragionare di scuola pone un secondo interrogativo: nelle democrazie come la nostra e in particolare in quella italiana, orientata dalla Costituzione, frutto dell’alleanza antifascista delle forze politiche uscite dalla seconda guerra mondiale e dalla Resistenza, l’istruzione è o non è un diritto inalienabile, almeno fino alla conclusione dell’obbligo scolastico? E di qui discende un terzo, più complesso, interrogativo, che dà infatti origine a interpretazioni diverse: il merito, in ottica costituzionale, va letto ai sensi dell’art. 2, 3, 4 o 34? O di altri ancora, dove compare come categoria assimilabile alle ccellenze cui riconoscere riconoscimenti e riconoscenze al merito? 
Perché anche qui se ne possono ricavare sfumature sensibilmente diverse. Non a caso i fautori del merito fanno appello all’art. 34 (dove per altro si parla di meritevoli e non di merito e men che meno di meritocrazia) e i contrari guardano invece all’art. 3, per chiedersi quale sia il reale compito della Repubblica.
Ma bisognerebbe dare un’occhiata anche all’art. 2, perché se l’istruzione è un “diritto inviolabile”, ascrivibile fra i diritti di natura sociale, allora anche da questo discenderebbero alcune considerazioni relative alla applicabilità o meno della categoria del merito alla scuola pubblica.  Perché questi diritti sono riconducibili a doveri di solidarietà e non a regimi di competizione o di premialità di alcuni rispetto ad altri. Oppure che, a questo riguardo, è ovvio che le provvidenze giustamente ipotizzate dall’art. 34 a vantaggio di chi seppure “privo di mezzi” ambisce e a ha il diritto di proseguire gli studi non solo non risolvono la gravità delle condizioni dalle quali è riuscito ad emergere, ma non possono essere esaltate a discapito di chi sia meno meritevole. Infatti, appellarsi art. 3, più che all’art. 34 (del quale è senz’altro un sovraordinato), significa anteporre la rimozione degli ostacoli che generano disuguaglianze di fatto agli stessi interventi compensativi rispetto ai danni che le disuguaglianze producono. Non a caso molti fautori del merito dalla parte della democrazia inclusiva e attenta ai più deboli insistono sulla necessità dello Stato di porre tutti in condizioni paritetiche ai blocchi di partenza (ammesso che sia possibile) prima di occuparsi del successivo merito fra concorrenti a quel punto resi più uguali. Perché, in caso contrario, il merito è solo l'alibi al mantenimento delle disuguaglianze o, nel peggiore dei casi, lo strumento per colpevolizzare i non meritevoli delle condizioni in cui versano.

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La scuola pubblica. Queste, per altro,  sono argomentazioni che possono essere meglio sviluppate in ottica giuridica e di giustizia sociale e politica (che comunque attengono alla denominazione  e all’agire dei Ministeri), ma l’essere e il fare scuola pongono anche altre questioni. Oltre che in rapporto a quale idea di stato sociale si intende o non si intende perseguire, l’identità della scuola ha infatti un suo statuto specifico, che non è detto debba prevedere l’applicazione indolore della categoria del merito come valore costitutivo e fondante.
Infatti, per tornare al cuore del problema qui in discussione: il merito è applicabile alla scuola?
Dal che discende un ulteriore problema, preliminare: quand’anche fosse applicabile, è così strategico e fondativo da essere assurto a criterio guida di identità e fini? Perché questo significa cambiare il nome del ministero. Se per esempio il "Ministero della Salute" venisse chiamato "Ministero della Salute e dei ricoveri ospedalieri" (non dico dei vaccini per ovvi motivi...) sarebbe indubbio che si farebbe riferimento a un parametro pertinente con la gestione della salute pubblica, ma certamente non esclusivo e neppure prioritario. In tal senso anche ammesso, che il merito sia pertinente con la scuola (e io per esempio nutro al riguardo seri dubbi), di certo non è né esclusivo né prioritario, come invece molti commentatori favorevoli vorrebbero far ritenere.
La scuola pubblica, almeno e di certo fino alla soglia dell’obbligo scolastico, e stando alle normative vigenti, non è prioritariamente finalizzata a riconoscere, sancire e promuovere il merito o il demerito degli allievi, men che meno a selezionare coloro che sono più meritevoli dagli altri. A meno che non si voglia con il cambio di denominazione, promuovere questo cambio radicale di identità e di fini della scuola pubblica. Perché se non è così, allora mettere il merito sulle targhe e la carta intestata è solo un’operazione propagandistica, l’ultimo atto della campagna elettorale (ma in quanto tale, ora, inopportuno e fraudolento). Se invece l’intenzione è l’altra, allora il governo deve mettere all’ordine del giorno il cambiamento di tutta la normativa relativa quantomeno alla scuola dell’obbligo e avviare una radicale riforma della scuola italiana nell’ottica e nella prospettiva del merito individuale rispetto allo stesso  sviluppo sociale o del merito individuale come strumento prioritario di perseguimento dello sviluppo sociale. Altrimenti sarebbe il caso di rinunciare a questa boutade ideologica che non è neppure a costo zero. Tra l’altro, i responsabili di ANP, anziché reagire festosi al cambio di denominazione, dovrebbero chiedere al Ministro a quale capitolo di spesa vanno ascritte le spese per il cambio di denominazione, perché va da sé che da ieri l’altro tutte le intestazioni, di edifici o di comunicazioni, che non rispettino la nuova denominazione sono da considerare extra norma. O estranee all'indirizzo del Ministero. 


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La valutazione del capitale umano e il fine ultimo della scuola pubblica. Se poi, ancorché non prioritario né essenziale (e quindi da eliminare dalla denominazione), si volesse comunque considerare il merito una categoria importante per l’organizzazione e la gestione della scuola, allora le questioni e i problemi che ne conseguono non sono certo di poco conto.
Il merito, come  è universalmente riconosciuto, sia dai detrattori che dai fautori, è un criterio in base al quale si definiscono riconoscimenti e premi e, in certi casi, all’opposto, mancati riconoscimenti o punizioni; a scuola, quindi attiene ai criteri, alle procedure e agli strumenti della valutazione. Ovvero l'applicazione del merito come categoria interpretativa e organizzativa della scuola impone una conseguente ridefinizione di tutta la normativa sulla valutazione: i suoi scopi, i suoi criteri, le sue pratiche. Restiamo quindi in attesa delle “Linee Guida per l’applicazione del Merito alla scuola italiana” o, ancor meglio, “Le Linee Guida per la realizzazione della Scuola dell’Istruzione e del Merito”: decida il nuovo Ministro se di ogni ordine e grado o della sola scuola dell’obbligo o del solo triennio della scuola secondaria di secondo grado. Dovranno poi decidere ispettori tecnici e insegnanti se quelle indicazioni nornative saranno o meno compatibili con la loro etica professionale.

Del resto, le finalità della scuola e i problemi della valutazione pongono un’altra importante questione, che non è certo esclusiva degli addetti  ai lavori, visto che è stata evocata nel dibattito parlamentare dalla stessa Presidente del Consiglio. In realtà si tratta del problema e dell’impostazione da cui discende tutto il resto. Mi riferisco alla questione del “capitale umano”. Perché se il Governo intende esplicitamente e coerentemente finalizzare l’intera scuola italiana, a partire dalla scuola dell’infanzia e magari dai nidi, all’incremento, alla selezione e allo sviluppo del “capitale umano”, allora i provvedimenti da prendere, in coerenza con la categoria del merito desunta in questo caso dal mercato del lavoro e dalle sue aspettative, sono molti e impegnativi. Va detto che in questa trasformazione, è probabile che il nuovo governo potrà contare sull’appoggio di altre forze politiche perché, per esempio, la sedicente “Buona Scuola”  dell’allora Governo Renzi intendeva andare in quella direzione e infatti trovò ferma opposizione nella scuola e nel paese. Noi in prima istanza eravamo  e saremo fermamente contrari.  Per noi la scuola pubblica è e deve restare finalizzata allo sviluppo umano, all’emancipazione individuale e sociale, certamente quella dell’obbligo ma anche quella successiva. E sono due cose assai diverse.

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Dalla parte degli allievi. Anche su questioni apparentemente minori una scuola del merito implica scelte diverse e problematiche in tema, per esempio, di criteri di valutazione e certificazione dei risultati, di promozioni e bocciature. Uno dei principali problemi concreti, infatti, a voler applicare il merito alla scuola, è decidere da che cosa è definito, come lo si rileva, come lo si valuta. Da che cosa è costituito il merito che il Governo Meloni ha posto a vessillo del suo Ministero (che a questo punto cominciamo a sentire sempre meno “nostro”)? È fatto di conoscenze, di abilità, di competenze, di comportamenti, di impegno, di risultati? Per la scuola si tratta di questioni esiziali perché se si chiede ai docenti di riconoscere, valutare e premiare il merito, bisogna dir loro com’è fatto, se e come si osserva, si misura, si valuta. E va poi chiarito come verbalizzare e che cosa fare delle attestazioni, a questo punto di merito, alla fine della scuola.
Ma avviamoci alla fine del ragionamento. Anche e soprattutto dalla parte degli allievi è legittimo chiedersi se sia pertinente e positivo ragionare prioritariamente in termini di merito. Alcuni (pochi in verità) fra i fautori più accorti sostengono che il merito può essere ricondotto alla matrice delle motivazioni più sane e autentiche dello studente, affinché divengano non antagoniste rispetto agli altri, ma solo verso se stessi, nell’impegno costante a migliorarsi e magari addirittura nell’ottica del bene collettivo e non dell’interesse personale. Questa è l’unica forma di merito che ci sentiamo disposti a discutere come pertinente alla scuola, o forse come suo fine.  Ebbene se questa è l’idea di merito cui pensa l’attuale governo (ma ci si consenta di dubitarne, viste e  lette alcune delle difese d’ufficio del provvedimento e le argomentazioni di chi ne ha redatto il programma) è di fondamentale importanza che si chiarisca che, anche in questo caso, la scuola va ridefinita rispetto non tanto alle norme (che più o meno e in parte dicono cose analoghe), ma rispetto al comportamento e alle pratiche della stragrande maggioranza di molti docenti.

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La scuola meritocratica c'è già. Perché il grande paradosso di tutto questo ragionamento è che la scuola italiana non ha nessun bisogno di essere orientata al merito. Una buona parte della scuola italiana non riesce a dare a tutti adeguati livelli di cittadinanza strumentale e culturale, ha tassi di dispersione eccessivi, è segnata da profonde diseguaglianze non solo fra nord, centro e sud, ma a macchia di leopardo, fra metropoli e piccoli  centri, fra centri urbani, quartieri semiperiferici e periferie. Non solo, ma tutta la scuola dell’obbligo, anziché essere finalizzata a garantire a tutte e tutti condizioni accettabili di cittadinanza, non fa che selezionare, canalizzare e gerarchizzare gli allievi in funzione dei loro destini futuri, che spesso, come sappiamo, corrispondono con le loro condizioni socioculturali di origine e provenienza. Da questa situazione i fautori del merito partono per reclamarne l’applicazione, mentre i refrattari denunciano il rischio che affidandosi al merito non si farebbe che peggiorare lo stato di cose. Anche perché i primi partono dal presupposto che di merito, nella scuola, ce ne sia troppo poco e i secondi che ce ne sia già fin troppo. E del peggior tipo.
La soluzione non è adesso provare la strada del merito propugnato dal governo di destra perché, come abbiamo cercato di dimostrare, il problema è a monte: il merito, comunque lo si intenda, è una categoria non pertinente con la scuola sanamente intesa, perché a scuola non ci sarebbe nulla da vincere o da perdere, né c’è da primeggiare o restare indietro, né da guadagnare posti in prima o in ultima fila. Questa è la scuola come la si è sempre fatta: iniqua e meritocratica. Ogni tanto qualcuno eccelle nonostante o più spesso in virtù delle condizioni in cui è nato e vissuto. Altre volte qualcuno non eccelle nonostante l’impegno o le condizioni favorevoli. E molti, troppi, restano indietro, vengono cacciati o escono senza risultati adeguati. Il problema vero della scuola è questo. E non lo si fronteggia certo appellandosi al “merito”, ma migliorando gli edifici, le infrastrutture, le condizioni e la quotidianità del fare scuola e del lavoro di insegnati e allievi.

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Postilla sugli insegnanti meritevoli. Alcuni collegano più o meno strettamente i discorsi sul merito nei confronti degli allievi con quelli sulla misurazione e la premialità del merito per gli insegnanti. È un tema quanto mai impervio e complesso, che si fa fatica ad affrontare, da parte nostra, perché si cade immediatamente nella diatriba un po’ pelosa del non voler essere valutati come singoli e come categoria, che è solo l’aspetto meno nobile della questione.  Al riguardo, mi limito a una considerazione apparentemente paradossale, ma in realtà dirimente e più legata al ragionamento fin qui condotto.
Ammesso che in una scuola o in un distretto o in una provincia (o nel Paese intero) si siano trovati i criteri per farlo e si individuini e attestino gli insegnanti migliori e pubblicamente li si riconosca tali, bisogna decidere: che cosa se ne facciamo? Quali allievi affidiamo loro? Gli allievi più meritevoli, o figli di famiglie meritevoli, così la loro condizione veleggerà verso mete di eccellenza, oppure i meno meritevoli, in modo che abbiano quanto di meglio la Repubblica è in grado di offrire loro in nome dell’art. 3? Oppure se ne tacerà l’elenco e li si gratificherà solo con aumenti di stipendio? Oppure con una diversificazione del mansionario? O magari una medaglia la merito?
L’idea che il riconoscimento della visione sana e non competitiva del  merito (sempre che esista un merito buono, come il colesterolo) sia una motivazione valida per allievi e insegnanti sarebbe una delle condizioni di funzionamento della normalità di una scuola ideale, cui dovrebbe corrispondere un’eguale applicazione di quel tipo di merito nelle relazioni sociali e professionali. Ma dato che così non è, l’idea competitiva di merito, che corrisponde a quella dominante dentro e fuori dalla scuola (quando appunto non è sbeffeggiata dal privilegio), non può certo essere la finalità della scuola in queste condizioni o la leva per risolverne i problemi. Almeno della scuola pubblica secondo Costituzione, con buona pace delle letture meritocratiche dell'art.34.

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Non ne verrà nulla di buono. Il problema vero è che il “merito”, comunque lo si giri, per la scuola o non c’entra nulla o è dannoso e controproducente. Spiace per chi in buona fede crede di aver individuato una leva democratica per combattere i privilegi e premiare l’impegno dei più bravi. Ma non è così. La scuola dei e per i  più bravi, tra l’altro, magari per loro funziona benissimo, mentre per gli altri è spesso un calvario privo di senso, da cui uscire o essere buttati fuori al più presto. E la si smetta di novellare che gli insegnanti di sinistra hanno abbassato i livelli scolastici in nome dell'eguaglianza, finendo col danneggiare proprio gli strati di popolazione con maggiori difficoltà economiche e sociali! Purtroppo questa affermazione non è controargomentabile: per capire se corrisponde al vero o è solo una strumentale forzatura dialettica, c'è un solo modo: andare a insegnare per qualche tempo dove le disuguaglianze sociali si pagano sulla propria pelle. E lì, chiedersi in cosa consiste la qualità dell'istruzione e come si può cercare di salvaguardarla.

Per tutte queste ragioni sapere di appartenere e dover rispondere, da qualche giorno e in attesa di sviluppi, al Ministero del merito ci rattrista molto. Perché riteniamo che si tratti di una dannosa mossa di propaganda che alla scuola non porterà nulla di buono.
Come già accadde per l'abolizione dei giudizi e la reintroduzione dei voti nella scuola di base (altro frutto avvelenato dell'avvento di un altro governo di centrodestra), che ha prodotto danni profondi e allevato generazioni di allievi che ormai lavorano solo più per il voto e di genitori che attendono con ansia di sapere quanto ha preso la figlia o il figlio. 
A meno che questo intendano i fautori del merito per qualità dell'istruzione.

 

Credits


Immagine a lato del titolo: su modello tratto da www.tuttodisegni.com,  libera interpretazione dell'unica possibile sintesi delle teorie del merito e della valutazione per una scuola autenticamente formativa e democratica. E non sto scherzando. [m.a.]

Parole chiave: merito

Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".

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