Il panorama è sempre più fosco.
Mi riferisco all’ennesimo documento del Superiore Ministero, infarcito – in geometrica e ultraventennale progressione – di significanti-quasi-vuoti, ossia di formulazioni (insegnamento e apprendimento digitali, didattica innovativa e così via) del tutto prive di autentica valenza culturale e cognitiva, ma molto potenti sul piano del marketing concettuale, ovvero dell’affermazione di quel Pensiero Pedagogico Unico subordinato alla mentalità e alle pratiche neoliberiste alla cui denuncia questa rubrica è dedicata.
Questa volta, dobbiamo però dare atto alla firmataria digitale della presentazione dell’iniziativa “Premio la scuola digitale per l’anno scolastico 2019-2020” di aver fatto un passo in avanti nella direzione della chiarezza: non vi sono più i vecchi travestimenti lessicali, la matrice egemonica è questa volta più che esplicita.
Nell’esprimere un evidente compiacimento per i risultati dello scorso anno,” il testo sottolinea infatti l’“alto contenuto di conoscenza, tecnica o tecnologica, anche di tipo imprenditoriale” dei 1500 progetti innovativi presentati e valutati nel 2018-19. La vocazione degli istituti scolastici a configurarsi e comportarsi come aziende in competizione l’una con l’altra, insomma, è data per scontata, costituisce un riferimento istituzionale ormai talmente condiviso da poter essere presentato in modo indolore - sono anzi fioccati i like e le condivisioni - come valore aggiunto e principio professionale.
Secondo il format tipico, per esempio, dei concorsi di bellezza, “Il Premio Scuola Digitale prevede poi una fase provinciale/territoriale, una successiva fase regionale e, infine, una fase nazionale”, con relative giurie.
Diviso in due sezioni (primo e secondo ciclo) ammette la presentazione di un solo progetto per ogni scuola, relativo all’immancabile e sempre più anglofilo e involuto pastone mainstream:
“modelli didattici innovativi e sperimentali, percorsi di apprendimento curricolari ed extracurricolari basati sulle tecnologie digitali, prototipi tecnologici e applicazioni, nei settori del making, coding, robotica, internet delle cose (IoT), del gaming e gamification, progetti di creatività digitale (arte, musica, valorizzazione del patrimonio storico, artistico, culturale, ambientale, con le tecnologie digitali, storytelling, tinkering), di utilizzo delle nuove tecnologie per inclusione e accessibilità, STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica), di sviluppo sostenibile del territorio attraverso le tecnologie digitali”.
La fumosità torna – dobbiamo essere sinceri – nei criteri di valutazione, unici per tutte le istanze della gara:
“- valore e qualità del contenuto digitale/tecnologico presentato, in termini di vision, strategia, utilizzo di tecnologie digitali innovative;
-significatività dell’impatto prodotto sulle competenze degli studenti e integrazione nel curricolo della scuola;
-qualità e completezza della presentazione”.
Soprattutto, desta meraviglia l’ottimistico candore docimologico secondo sui sarebbe possibile misurare un “impatto” ancor prima che un’attività didattica sia messa in atto e verificata.
Il documento, però, recupera la trasparenza lessicale e la lucidità aziendalista di cui gli siamo debitori quando stabilisce che
“i progetti finalisti saranno presentati dagli studenti stessi (sic!) attraverso appositi pitch, supportati da video, della durata massima di 6’ per scuola (3 minuti di video + 3 minuti di pitching)”.
L’impegno di scolari della primaria in una presentazione indirizzata a ottenere finanziamenti è infatti impunemente concepibile solo nel Paese dei Balocchi Digitali.