Per me, la novità di questo anno scolastico è stata l’insegnamento nella terza serale del Liceo Artistico in cui lavoro anche al mattino. Inoltre completo l’orario facendo anche tre ore in un’altra scuola poiché, grazie alla riforma Gelmini, si sono perse tutte le ore di Chimica nelle classi quinte. Inutile dire che dopo tanti anni d’insegnamento non sono felice di questa frammentazione. Molti colleghi mi dicono che hanno insegnato al Serale da supplenti e conservano un buon ricordo di questa esperienza, aggiungendo che "però... stare a casa la sera… è meglio!". Mi si prospetta un’esperienza insolita a questo punto della vita professionale, che può essere vissuta come una retrocessione o come un’avventura. Non scelgo nessuna delle due opzioni, entrambe emotivamente troppo impegnative e decido di vivere questa novità standoci dentro, senza subirla.
La terza del Serale è una classe articolata fra gli indirizzi di Arti figurative e Grafica e non tutti devono frequentare le mie lezioni. Ci sono adulti- lavoratori che hanno abbandonato la scuola da parecchi anni e ragazzi sui vent’anni, pluriripetenti, che hanno lasciato la scuola da pochi anni. Tutti quanti si giocano l’ultima carta per prendere il diploma. Diversi di loro hanno la terza media e a novembre fanno un esame integrativo per recuperare il biennio. Mi rendo conto ben presto che nessuno di loro ha avuto un rapporto facile con la scuola, che non ci sono, come nella scuola diurna, i cosiddetti scolarizzati con cui avere quiete soddisfazioni e che ho davanti solo gli esclusi.
Questi studenti con la loro umanità comunque unica e irripetibile, rappresentano varie tipologie di abbandono scolastico, uno spaccato della periferia della cultura che si concentra in un’ aula scolastica. L’atteggiamento verso la scuola, che io per loro rappresento, è completamente diverso nel caso degli adulti-lavoratori da quello dei giovani studenti che si sono trasferiti dalla scuola della mattina a quella della sera, senza la riflessione sulle proprie esperienze che il tempo favorisce e con speranze di facili riscatti.
I primi hanno avuto il tempo di metabolizzare i loro insuccessi scolastici e vivono con fiducia questa nuova opportunità. I secondi, essendo usciti da poco e malamente dalla scuola di serie A, tentano di riprodurre con me gli stessi schemi di sfida-provocazione di chi vuole mettere alla prova l’insegnante prima di essere lui stesso a provarci davvero. I comportamenti di questi ragazzi dicono: … voglio vedere se riesci a insegnami qualcosa nonostante quello che sono, ... se non ci riesci sei come gli altri , che tradotto significa: riuscirai prima di tutto a vedermi e ad accettarmi per quello che sono? Sono uno sconfitto per la scuola, ma sono una persona degna della tua attenzione e del tuo amore.
Da un altro punto di vista, quello della maturità che ti dà la vita, la classe è fatta di madri, padri e figli un po’ scapestrati. Cerco di interagire con loro attraverso la disciplina che insegno e mi muovo con attenzione e senza pregiudizi di sorta. Di fronte al fatto che non mi scandalizzo se non sanno fare le divisioni o non sanno descrivere fenomeni scientifici quotidiani, ma semplicemente li aiuto nell’appropriarsi delle conoscenze di base, si aprono, acquistano fiducia. S., una signora che fa le borse per una famosa casa di moda e che arriva stanchissima a scuola dopo otto ore di lavoro, è contenta di capire come si calcola uno sconto; P., una ragazza inizialmente scostante e diffidente, si diverte un mucchio nel fare piccoli esperimenti e comincia a studiare con gusto; M., la ragazza che lavora in una ditta di pulizie è felice di aver capito, dopo aver fatto il percorso sugli acidi e le basi, perché i prodotti igienizzanti funzionano; D., il ragazzo bravissimo a disegnare che con me (nella scuola del mattino) aveva tre a chimica perché a scuola veniva saltuariamente, si rivela essere molto attento e coinvolto.
Le cose funzionano anche perché tutti si aiutano: tutti insegnano e tutti imparano. Quando le parti di chimica diventano complicate la fatica che facciamo è tanta. Due ragazze, in particolare, mi aiutano nel seguire chi rimane indietro, compresi i tre stranieri che non padroneggiano la lingua e hanno bisogno sempre di spiegazioni ripetute o coloro che hanno perduto qualche lezione. I casi disperati diventano sempre meno disperati e pian piano riescono a lavorare come gli altri. Fra questi la gioia più grande me la dà J., un ragazzo marocchino che ha passato il primo quadrimestre senza parlare, scegliendosi sempre un posto lontano da tutti. Abbiamo aspettato che decidesse di starci, di esserci, ma per tanti mesi non è successo niente. Poi F., un ragazzo-adulto che fa l’operaio, si è fatto carico di questo compagno di strada, ha trovato il modo d’intercettarlo e, finalmente, J. si è connesso. Ho aspettato ancora, dando tempo al tempo. Poi è successo, l’ho interrogato mettendomi a sedere vicino a lui, per evitare il trauma dell’esibizione davanti alla lavagna. Ho potuto ascoltare ciò aveva imparato ed è stata una grande emozione sentirlo parlare e raccontare ciò che sapeva della tavola periodica.
A metà anno scolastico ho il semiesonero per fare il tutor coordinatore nel corso di TFA per la chimica. Non lascio il serale perché sarebbe un tradimento della fiducia che le ragazze e i ragazzi, gli adulti lavoratori e non, hanno maturato nella scuola, attraverso di me.
Ho a che fare ora con due gruppi di adulti molto diversi che hanno in comune solo l’età media. I corsisti del TFA rappresentano il successo del percorso d’istruzione, sono stati selezionati con dure prove disciplinari per accedere al corso, sono l’élite dei laureati. Mi trovo così a muovermi su due fronti molto distanti: la periferia e il centro della cultura. Fra il centro e la periferia c’è la scuola. E la scuola è il mezzo per vivere e costruire la città.