In questi due mesi si sono accumulati davvero parecchi contributi sulle sorti della scuola italiana.
Soprattutto i primi in ordine di tempo sono stati caratterizzati dall’urticante retorica dell’opportunità, che vedeva nella necessità di utilizzare strumenti di comunicazione telematica a seguito della chiusura degli edifici scolastici la possibilità di introdurre finalmente in modo massivo la “didattica digitale”. Al centro, quindi, una formulazione gergale, che ciascuno può interpretare come vuole, e che di conseguenza è priva di un autentico significato culturale e professionale, dal momento che non declina in modo preciso intenzioni, metodi, contesti di applicazione, risultati attesi ed effettivi. E spesso nemmeno gli strumenti: gravissimo perciò che questa sia stata la posizione di molti rappresentanti delle istituzioni, centrali e periferiche.
Altro insieme compatto e riconoscibile è stato quello del rifiuto aprioristico di qualsiasi soluzione di organizzazione logistica delle pratiche didattiche e delle (residue) relazioni diversa da quella tradizionale. Del resto, la polarizzazione è una delle caratteristiche fondamentali della società della conoscenza sorvegliata, risorsa produttiva del mercato: esprimersi e far esprimere in termini assoluti (sì versus no) su qualsiasi argomento consente infatti alla politica ridotta a comunicazione manipolatoria del consenso di agire attraverso forme di plebiscitarismo continuo. Si passa da un sondaggio al successivo, e si impedisce di conseguenza qualsiasi dialettica autenticamente e incisivamente critica. Con il mirabile ausilio della frequentazione dei “social”, divenuta ormai collettiva e compulsiva istanza di pseudo-partecipazione.
Fragilissima, infine, la posizione “intermedia” tra entusiasmo e rigetto, imperniata su una – assolutamente ingenua ma dannosa, perché invisibilizzante – neutralità degli strumenti tecnologici impiegati, che invece (lo dicono tutti gli studi in merito) implementano visioni del mondo, del lavoro, della conoscenza, dell’istruzione e dell’apprendimento. Questa consapevolezza e la conseguente necessità di pensiero davvero analitico, anzi, hanno avuto fino ad ora ben poco spazio nel dibattito, perché rendono necessari studio, analisi, confronto, tempo e così via.
In questo contesto - davvero problematico proprio perché non autenticamente problematizzato -, di recente è stata avanzata una proposta su cui finalmente vale la pena non di schierarsi, ma di riflettere, ovvero l’apertura nelle scuole e nelle università di un approccio “costituente”.
È un approccio davvero suggestivo, perché riconosce la difficoltà globale e strutturale dell’istruzione a fronte dell’emergenza sanitaria, soprattutto se quest’ultima dovesse prolungarsi, e nello stesso tempo non indica una soluzione preconfezionata, ma piuttosto la necessità di analizzare la situazione da più punti di vista, per arrivare a costruire in modo condiviso un percorso che tenga conto di diversi fattori.
Dall’analogia con la Costituente – quella nobile, quella animata dallo “spirito del C.L.N.”, non le sbiadite imitazioni successive – possiamo poi trarre importanti indicazioni di metodo e di autentica pratica democratica.
I costituenti si sono mossi nell’ambito di un mandato popolare reso completo dal voto alle donne e autore della scelta repubblicana. La cultura della Resistenza aveva loro consegnato il compito politico di concepire e normare istituzioni che fossero antidoto procedurale, civile e morale a ogni forma di dittatura e di potere autoritario: di qui la scelta della centralità della rappresentanza parlamentare. Molti di essi, inoltre, si ispirarono nel dibattito e nelle risoluzioni al principio della democrazia progressiva, con al centro i diritti del lavoro, in termini di dignità e di partecipazione attiva, di cittadinanza individuale e collettiva. Su queste basi, il dibattito vide momenti di confronto anche aspro e però ebbe come finalità costante e come risultato effettivo la convergenza e la sintesi.
Bene, in quanto aspiranti costituenti della scuola dovremmo seguire questo semplice ma chiarissimo insegnamento: cominciare a cercare i punti di incontro.
Il tempo delle task force, degli appelli identitari, delle dichiarazioni provocatorie, delle scorciatoie operative, dell’occupazione degli spazi professionali, sindacali e associativi, dei “colpi” e dei colpetti mediatici, della narcisistica compilazione di rubriche editoriali, insomma, deve finire. Detto in modo sintetico, il soluzionismo identitario e prêt-à-porter – il cui unico esito certo è la polemica e il cui scopo troppo spesso e troppo palesemente è stato far parlare di sé – è ormai asfittico, privo di sbocco e, anzi, controproducente
Senza identificare il problema da affrontare, infatti, non è possibile nemmeno tentare di abbozzare risposte utili e unificanti perché convincenti. E convincenti perché pluridimensionali e multilaterali, frutto di un patto, intenzionale e trasparente, di cui la scuola della Repubblica ha estremo bisogno. Perché in grado di considerare tutti i filoni (sanitari, logistici, finanziari, giuridici, contrattuali, culturali, metodologici, psicologici, sociali, ecologici – e sto certamente dimenticando qualcosa) che concorrono a costruire l’istruzione, che deve essere considerata nei suoi aspetti endogeni ma anche esogeni, in particolare per il fatto che le prossime scelte dovranno fare i conti con esigenze di sostenibilità nel tempo.
Nell’attuale situazione, l’approccio costituente, inoltre, ci orienta anche in merito alla libertà di insegnamento: essa è scelta decondizionata e decondizionante e deve essere una dimensione della sfera pubblica, in cui avere la piena e - appunto - libera responsabilità del senso professionale e della valenza culturale delle opzioni attivate su apprendimento e didattica. La Carta assegna questa garanzia alla scuola in quanto istituzione con un compito costituzionale fondamentale: “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Se – come sembra – ci si prospetta una socialità limitata dalla separazione e dall’isolamento, la priorità “costituente” e capace di unificare le riflessioni e i punti di vista è, insomma, facilmente individuabile. Si va infatti configurando per l’apprendimento un “ostacolo di ordine sociale” di nuova generazione, ormai innegabile: se non affrontati e non compensati, si profilano restringimento e carenza di quegli spazi comuni di relazione, di quei territori di equità e di quei luoghi di socializzazione tutelata ed emancipante assicurati dalla scuola che abbiamo conosciuto fino a due mesi orsono.
Apriamo una fase due anche nel dibattito.