Sono diverse le declinazioni del rapporto tra scuola e territorio teorizzate ormai da decenni: tuttavia, proprio in questi ultimi mesi, in cui le scuole sono state forzatamente chiuse in seguito all’emergenza da Sars-Covid 19, abbiamo assistito al fiorire di un dibattito molto vivace, che ha coinvolto insegnanti e dirigenti scolastici, associazioni professionali e di terzo settore, nonché amministratori di enti locali, attorno a espressioni chiave e di forte suggestione come “scuola diffusa” e “educazione sconfinata”, che hanno dato nuovo vigore ad altri concetti simili su cui si dibatte appunto da tempo.
Cerchiamo allora di fare un po’ di chiarezza terminologica, analizzando brevemente quali modelli di relazione scuola/territorio possiamo individuare tra quelli teorizzati e praticati realmente, soprattutto negli ultimi venti anni, a partire cioè dal regolamento sull’autonomia scolastica, in cui la dialettica tra scuola e territorio trova riscontro in diversi articoli, per esempio all’art 7 comma 8: "Le scuole, sia singolarmente che collegate in rete, possono stipulare convenzioni con università statali o private, ovvero con istituzioni, enti, associazioni o agenzie operanti sul territorio che intendono dare il loro apporto alla realizzazione di specifici obiettivi." [1].
Tra i modelli di funzionamento del rapporto tra scuola, o, meglio, fra educazione e territorio più diffusi e di cui si discute maggiormente possiamo individuarne almeno quattro:
Il primo concetto viene esplicitato nella “Carta delle città educative”, sottoscritta a Barcellona nel novembre del 1990 nell’ambito del Congresso Internazionale delle città educative. È interessante notare come il termine “scuola” in realtà non compaia mai nel documento stesso - ecco perché, più in generale, parlavo di educazione e territorio -, proprio perché il focus non è sull’istituzione scolastica ma sulla città, e particolarmente sull’ente locale, il Comune, l’amministrazione municipale, come si evince, ad esempio, dal secondo “principio”: "Le municipalità eserciteranno con efficacia i poteri che loro competono in materia di educazione. Qualunque sia la portata di queste competenze, elaboreranno una politica educativa ampia e in senso globale, che comprenderà tutte le modalità di educazione formale e non-formale, nonché le diverse manifestazioni culturali, le fonti d'informazione e i mezzi di scoperta delle realtà esistenti nella città."
La carta è tesa soprattutto a definire il ruolo dei “responsabili della politica cittadina”, chiamati a mettersi in ascolto reale dei bisogni dei bambini e dei giovani, rendendoli parte attiva nella costruzione dei programmi formativi e soprattutto capaci di attingere risorse e informazioni.
Il secondo modello, quello della scuola aperta partecipata, trova attuazione in molti istituti comprensivi: a fare da apripista, oltre trent’anni fa, è stato l’istituto comprensivo Manin-Di Donato di Roma. Un ruolo fondamentale, che differenzia la scuola aperta “partecipata” dalla generica “scuola aperta”, è quello assunto dai genitori degli alunni, riuniti in associazioni legalmente riconosciute e dunque dotate di un proprio profilo giuridico, che si richiamano con forza al principio di sussidiarietà sancito dall’art. 118 della Costituzione e intendono le scuole come “poli civici” diffusi nel territorio [2]. Un ruolo non secondario, nella costituzione di questa esperienza, è rivestito dal Mo.VI, il movimento di volontariato italiano che consta di 800 associazioni di volontariato federate, articolate in 4000 gruppi e presente in 40 province di 12 regioni.
“Comunità educante” è forse in questi ultimi anni la iunctura più diffusa e attraente. Nel sito dell’impresa sociale Con i Bambini, soggetto attuatore del "Fondo per il contrasto della Povertà Educativa Minorile", interamente partecipata dalla Fondazione CON IL SUD, leggiamo a questo proposito: “la risposta al fenomeno della povertà educativa minorile è la comunità educante, che comprende l’insieme dei soggetti coinvolti nella crescita e nell’educazione dei minori. In primis scuola e famiglia, ma anche organizzazioni del Terzo settore, privato sociale, istituzioni, società civile, parrocchie, università, i ragazzi stessi. Comunità educante è l’intera collettività che ruota intorno ai più giovani. Una comunità che cresce “con” loro, e non solo per loro; che educa gli adulti del domani, ma che si fa anche educare e cambiare da loro. Per far nascere una comunità educante è necessario coinvolgere tutti i soggetti del territorio nei progetti per riportare i ragazzi e le loro famiglie al centro dell’interesse pubblico. Condividendo strumenti, idee e buone pratiche è possibile raggiungere l’obiettivo comune di migliorare le condizioni di vita di bambini e ragazzi, che diventano non solo destinatari dei servizi, ma soprattutto protagonisti e soggetti attivi delle iniziative programmate e attivate” [3].
Con la riforma del terzo settore approvata nel 2017, sempre di più alla visione antica del “volontariato” si sostituisce quella degli enti del terzo settore e dell’impresa sociale finanziati dalle fondazioni bancarie. Tali enti si trovano spesso a gestire, come capofila di reti molto ampie, diversi milioni di euro per concretizzare appunto la comunità educante, composta da una o più scuole e da un numero cospicuo e variabile di altri enti e associazioni, che operano su una stessa porzione di territorio coincidente, in genere, con quartieri periferici e particolarmente disagiati. Proprio perché si tratta di progettare in modo molto complesso, gestendo e rendicontando cifre importanti (cosa difficile per la gran parte delle scuole statali e delle loro segreterie a ranghi ridotti, spesso già impegnate sul fronte ambiti territoriali, PON etc.), tali enti svolgono, come si diceva, il ruolo di capofila, tenendo un po’ le redini di tutta la macchina organizzativa.
Secondo quanto scrive Antonio Fici , tali enti “realizzano il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’articolo 3, 2° comma, della Costituzione, poiché contribuiscono alla rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la sua effettiva partecipazione alla vita politica, economica e sociale del Paese. Sono enti che, quando esercitano un’impresa, non lo fanno in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà o alla dignità umana (...), bensì proprio al fine di perseguire questi obiettivi. Insomma, se la cultura del terzo settore fosse stata sviluppata a quei tempi come lo è ai nostri giorni, il legislatore costituente avrebbe sicuramente fatto specifica menzione degli enti del terzo settore (inclusa l’impresa sociale) e ad essi avrebbe riservato un particolare trattamento”. [4]
E’ evidente che il riferimento all’articolo 3 comma 2, coincide esattamente con il mandato che la scuola statale ha sempre considerato proprio appannaggio. Ed è altrettanto evidente, che proprio tale coincidenza, se non ben gestita, può trasformarsi in un gioco incrociato di rapporti di forza, in cui la scuola, specie se più povera di figure professionali competenti (al livello di dirigenza e/o di insegnanti) e priva di una visione pedagogica e culturale adeguata, finisce col soccombere e “chiudersi” per non farsi fagocitare dal più organizzato, e finanziato, terzo settore, che, a sua volta, finirà col sentirsi, e magari in certi casi col rappresentare davvero, l’unico effettivo attuatore del mandato costituzionale della “rimozione degli ostacoli”.
Infine, secondo l’elenco schematico che ci siamo dati all’inizio, un’altra modalità di relazione della scuola con il territorio è costituita dai patti educativi territoriali. In genere sono patti che l’istituzione scolastica stringe con enti locali e associazioni del terzo settore per aumentare l’offerta formativa e il tempo scuola, soprattutto in alcune realtà problematiche e/o periferiche dove non esiste tempo pieno e tempo prolungato (ossia nella stragrande maggioranza delle scuole del Sud Italia, com’è noto). La regìa è, in questo caso, in mano alla scuola e al dirigente scolastico che firma il patto territoriale insieme al sindaco o all’assessore e ai rappresentanti legali delle associazioni che si impegnano a fornire servizi e a coprogettare attività formative nel territorio. Nelle ultime settimane la dicitura più in voga, complici i documenti ministeriali elaborati dalla task force guidata da Bianchi per la ripresa di settembre [5], sembra essere quella di “patti educativi di comunità”. Tale dicitura, a prima vista innocua, se intesa appunto come sinonimica dei consueti “patti territoriali”, ha suscitato invece vibranti proteste, levatesi soprattutto da parte del mondo del terzo settore, preoccupato di perdere il protagonismo guadagnato sul campo delle “comunità educanti” [6], a favore di più annacquati e generici “patti”, tesi soprattutto a reperire aule e spazi esterni in più per cercare di tamponare l’emergenza “sicurezza”.
In effetti, a ben guardare, colpisce lo sbilanciamento dello sforzo, profuso ancora di più in queste settimane estive “a Dad sospesa”, sul versante della sicurezza a discapito di uno sforzo di visione didattico-pedagogica sui curriculi che realmente si troveranno a realizzare i gruppi di alunni a partire dal 14 settembre. Come avverte Turrisi, infatti, “mentre in questo momento tutti i responsabili delle istituzioni scolastiche, dal ministero, alle varie task-force, ai Direttori regionali, ai Dirigenti scolastici sembrano concentrarsi sul “contenitore” scuola (distanza, numero di alunni, spazi, banchi ecc..) se non guardiamo anche, e contemporaneamente, all’organizzazione della didattica rischiamo di fare dei pericolosi passi indietro e attaccarci a ciò che di più sicuro e rassicurante ci possa essere, cioè la didattica trasmissiva, la scuola che valuta e che seleziona; tutto questo, per altro mentre una pluralità di dati ci lanciano segnali di allarme sui rischi di incremento dell’abbandono scolastico, dell’analfabetismo funzionale, della povertà educativa” [7].
Anche la preannunciata disponibilità di corpo docente aggiuntivo a tempo determinato, già ribattezzato con orrida dicitura “precari Covid”, dà più la sensazione di un tampone emergenziale, foriero di un nuovo bacino di precariato, che non di un rafforzamento dell’ormai chimerico “organico dell’autonomia” che entri a pieno titolo e con pari dignità nella progettazione distesa e strutturata del curriculo d’istituto.
In conclusione di queste riflessioni, che sono ben lungi dal voler essere esaustive, è appena il caso di precisare che le quattro/cinque modalità di relazione scuola/territorio individuate nel nostro elenco puntato iniziale non costituiscono compartimenti stagni, e spesso è più facile rintracciare forme ibride e complementari che presentano tratti comuni tra i vari modelli. Del resto già molti anni fa Franco Frabboni teorizzava un “sistema formativo integrato” parlando di “aula decentrata”, con il voluto rischio di mettere in discussione la centralità educativa e professionale della scuola : “Una relazione di scambio e di comunione dei reciproci beni culturali secondo la felice immagine di un sistema scolastico che esce quotidianamente nell’ambiente per elevare i suoi patrimoni e le sue risorse ad aule didattiche decentrate. Come dire, il “mattone” (la città) e il “ciuffo d’erba” (il paesaggio naturale) come segni di cultura, come alfabetieri linguistici e multiblocchi logici. Come primi libri di lettura, come primi abbecedari di comunicazione e di conoscenza” [8].
In definitiva, la domanda da porsi allora è: ma cosa serve davvero, non solo alla scuola per adempiere al proprio mandato costituzionale, quanto ai nostri circa otto milioni di alunni/e e soprattutto a quelle migliaia di ragazzi e ragazze che oggi più di prima corrono il rischio di ingrossare le file dei Neet? Quali patti di comunità, comunità educanti, scuole aperte e partecipate? E soprattutto, al netto dei grandi progetti attualmente in corso, ad esempio quelli finanziati dall’impresa sociale Con i bambini, in cui alcune scuole brave e fortunate sono già coinvolte, le scuole avranno dei finanziamenti già disponibili per garantire l’attuazione dell’autonomia scolastica con tutto il corredo di uscite didattiche, scuole sconfinate e educazione diffusa?
Mi si perdoni il ragionamento banalissimo e lo sguardo fin troppo ravvicinato al mio contesto, ma, siamo sicuri che i ragazzi del quartiere San Filippo Neri (ex Zen) di Palermo avranno i soldi per poter svolgere uno studio scientifico sul campo nelle tante riserve marine che il territorio siciliano ha la fortuna di vantare, ma che troppo spesso sono interdette allo sguardo curioso e attento dei ragazzi anche i più “difficili” perché non ci sono i mezzi pubblici e la scuola non può pagare qualche esperto esterno che li guidi? Per quello che mi è stato dato di capire finora, temo che ci siano i soldi (tanti) per i banchi monoposto, e per qualche intervento di edilizia leggera grazie ai poteri straordinari concessi ai sindaci, ma nulla o quasi per garantire l’effettiva realizzabilità di un curriculo aperto, flessibile, significativo.
Ci auguriamo almeno che le giornate di settembre siano dedicate alla calibratura del progetto educativo condiviso tra scuola e territorio e coprogettato nel corso dell’anno anche dagli stessi studenti e studentesse, poiché, come ci ricorda Domenico Chiesa, “Scuola e Città sono per vocazione chiamati alla costruzione di un mondo inclusivo. Nel rilanciare il patto città-scuola si deve andare oltre la semplice richiesta/erogazione di servizi: il sistema formativo di un territorio si sviluppa attorno ad un progetto praticato sinergicamente da tutti i soggetti. (…) Genitori, insegnanti, educatori amministratori, volontari devono accrescere la condivisione del progetto educativo attraverso il riconoscimento, il rispetto, la valorizzazione reciproca, ognuno con un proprio ruolo e tutti partecipi di un comune cammino: l’umanizzazione della vita attraverso la cultura con cui si qualifica il diventare soggetti e cittadini attivi” [9].
Dopo il tempo della paura e l’attenzione, indispensabile, al bene primario del diritto alla salute, è ora di procedere con urgenza, anche riconvocando tavoli e conferenze di servizio che finora si sono occupate solo della sicurezza, alla progettazione o al consolidamento di tali patti educativi di comunità: la definizione chiara dei ruoli dei diversi attori in gioco e il loro reciproco rispetto siano la condizione necessaria per concorrere, attraverso curriculi disciplinari aperti e ben strutturati, alla costruzione delle competenze culturali di cittadinanza che, sole, danno dignità a tutte e tutti i nostri concittadini, di qualsiasi età.
1. Si vedano anche l’art. 3 commi 2 e 4: "Il Piano dell'offerta formativa è coerente con gli obiettivi generali ed educativi dei diversi tipi e indirizzi di studi determinati a livello nazionale a norma dell'articolo 8 e riflette le esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale, tenendo conto della programmazione territoriale dell'offerta formativa. Esso comprende e riconosce le diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari, e valorizza le corrispondenti professionalità.
Ai fini di cui al comma 2 il dirigente scolastico attiva i necessari rapporti con gli enti locali e con le diverse realtà istituzionali, culturali, sociali ed economiche operanti sul territorio. Ancora, all’art. 8 comma 4: La determinazione del curricolo tiene conto delle diverse esigenze formative degli alunni concretamente rilevate, della necessità di garantire efficaci azioni di continuità e di orientamento, delle esigenze e delle attese espresse dalle famiglie, dagli enti locali, dai contesti sociali, culturali ed economici del territorio. Agli studenti e alle famiglie possono essere offerte possibilità di opzione." [Evidenze dell'autrice. NdR].
2. Un documento molto interessante che ripercorre la genesi, i modelli e la mappatura delle scuole aperte partecipate in Italia (almeno fino al 2014) è G. Cantisani, "Scuola aperte, luoghi della partecipazione", Materiali per la giornata di studio e di incontro sulla sussidiarietà nella scuola Roma, Sabato 6 dicembre 2014 - Scuola Di Donato.
3."Comunità educante", in "Con i bambini".
4. Cfr. A. Fici, “La riforma del terzo settore e le fondazioni di origine bancaria”, cap. 5 del “XXIII Rapporto annuale Fondazioni di origine bancaria”, 2017,pp. 323-361.
5. Si veda il Piano scuola 2020/2021, MIUR, "Rientriamo a scuola".
6. Cfr. S. De Carli, "I patti educativi di comunità? Non siano una comunità educante monca", "Vita", 2020. A tal proposito c’è chi, parlando di “scontentezza” e “delusione” scomoda addirittura la categoria del “relativismo”, chiarendo che i “patti” del prof. Bianchi non sono quelli della ministra Azzolina: F. Foschi, "Linee guida e “patti territoriali” al bivio tra educazione e relativismo", "il Sussidiario", 2020.
7. M.R. Turrisi, "Per non sprecare quanto abbiamo imparato", in "Scuola7 "del 10 agosto 2020, n. 197.
8. F. Frabboni, F. Pinto Minerva, Manuale di pedagogia e didattica, Editori Laterza, Roma-Bari 2013, p. 262.
9. D. Chiesa, I ragazzi e le scuole umanizzano la città, in "Rivista dell’istruzione", 3/2018.
A lato del titolo, dalla locandina del progetto "Bambini a scuola di territorio", della associazione "Sinergia Outdoor".