Articolo scritto dopo una discussione sulla possibile modernità del tempo pieno con Giancarlo mentre era in ospedale. [e.m.]
Scrivo di tempo pieno sulla base dell’esperienza personale di insegnante di scuola media che, per sorte fortunata prima e scelta motivata poi, ha sempre lavorato in classi a tempo pieno e prolungato.
Nel cinquantenario della sua istituzione si sta avviando una riflessione articolata da parte di molti soggetti e associazioni: ripercorrerne la storia per individuare principi ispiratori e impianto didattico è fondamentale per riflettere, oggi, sul tempo e sulle modalità per l’ apprendimento, almeno nel primo ciclo di istruzione.
Il rapporto della scuola con la città è fondamentale, sotto il profilo strutturale e culturale (…) nel tempo pieno si sono gettate le basi per la futura integrazione tra scuola e territorio, che ha portato ad un vero e proprio Progetto Educativo di Territorio.[1]
Data la complessità del fenomeno, in questo contributo proverò a entrare solo nell’aspetto del rapporto tra la scuola e la comunità educativa territoriale, vissuto direttamente a metà degli anni settanta del secolo scorso a Torino, quando lavoravo alla scuola media G.Baretti in Barriera di Milano, quartiere storico della periferia operaia in quegli anni sottoposto all’impatto con una immigrazione massiccia e disordinata dal sud d’Italia, come ancora accade oggi con persone provenienti da altre terre.
Allora avevo l’incarico di atelierista: al Provveditorato di Torino operava una équipe composta da psicologi, assistenti sociali e animatori inviati a sostenere le classi differenziali, che di lì a poco verranno abolite.
Il tempo pieno a Torino, città educativa
Già nella seconda metà degli anni sessanta Bruno Ciari indica con chiarezza che le motivazioni alla base del tempo pieno sono di ordine sociale, politico e pedagogico-culturale […] la scuola a tempo pieno punta a sviluppare complessivamente la personalità dei bambini, non limitando la sua proposta formativa alle sole esperienze disciplinari tradizionalmente intese. [2]
Su queste basi, a Torino, un gruppo di insegnanti-pionieri appartenenti all’MCE[3] sperimenta in alcune scuole elementari il nuovo progetto di tempo-scuola marcato dalla scelta pedagogica dell’apprendimento attivo e cooperativo.
E’ il periodo dell’immigrazione massiccia e di una conseguente disordinata espansione urbanistica: in alcuni quartieri periferici la popolazione triplica in pochi anni. L’avvio del tempo pieno coincide dunque con una vera e propria emergenza sociale: doppi turni nelle scuole; genitori lavoratori senza rete parentale a cui affidare i figli; bambini e ragazzi in grande difficoltà con la lingua italiana; nuovi quartieri senza luoghi di socializzazione.
La risposta a questi bisogni non è solo quantitativa e di custodia ma si concretizza in un nuovo modello scolastico, in larga parte ispirato alla pedagogia cooperativa di Freinet. Dopo un inizio affidato al puro volontariato degli insegnanti, “finalmente nell’anno scolastico ’69-70 ottenemmo dal Comune un’ottantina di insegnanti del patronato scolastico che resero possibile, in altrettante classi di quattro scuole distribuite nelle periferie, la realizzazione di un tempo pieno un po’ meno volontaristico di quello che avevamo praticato negli anni precedenti” ricorda Fiorenzo Alfieri, per decenni uno dei protagonisti dell’innovazione scolastica e culturale della città. Torino, insieme a Bologna e Modena, è una delle prime città in cui si avvia la “rivoluzione” del tempo pieno con una inconsueta commistione di insegnanti comunali e statali. Qui, sulla spinta della lg 820/71, il tempo pieno si estende velocemente, coinvolgendo anche molte scuole medie, non senza l’opposizione attiva da parte di chi lo considera un attacco al primato educativo delle famiglie: numerosi saranno gli esposti, e in alcuni casi persino le denunce, da parte di gruppi di genitori.
La strada tuttavia è aperta e questa forte spinta sociale, culturale e didattica verrà assunta dalla nuova giunta comunale presieduta dal sindaco Novelli, insediatasi con le elezioni del 1975 vinte dalla sinistra. L’allora assessore all’istruzione Gianni Dolino, direttore di una delle scuole pioniere del TP, vara un piano di iniziative rivolte alle scuole dell’obbligo per la conoscenza della città e la partecipazione attiva al più vasto progetto di educazione permanente, che segna la nascita della “città educativa” per come sarà poi delineata a livello europeo [4].
La scuola media Baretti partecipa, tra le prime, con alcune classi del TP al programma “Conoscere la città”, progettando un vero e proprio curricolo multidisciplinare basato sulla metodologia laboratoriale: un percorso, inserito nella programmazione ordinaria, che funge da collettore-generatore di attività prettamente disciplinari. Questa esperienza – scolastica, culturale, didattica e organizzativa – è documentata in una pubblicazione [5], frutto della scrittura collettiva di un gruppo di insegnanti (sulle tracce della famosa Lettera dei ragazzi di Don Milani): la documentazione è infatti uno dei pilastri di quel rinnovamento della scuola, che si riflette nell’istituzione degli IRRSAE nel ’74.
Nel decennio 1975-85 l’Amministrazione cittadina avvia la creazione di un sistema complesso di servizi per l’infanzia – asili nido, scuole materne comunali, centri di documentazione, laboratori territoriali – come accade in altre realtà-pilota, soprattutto in Emilia Romagna. La centralità della scuola e dell’educazione diventa così parte integrante della città educativa, e genera iniziative di forte impatto culturale, come ad esempio il Settembre pedagogico che per molti anni apre l’anno scolastico con un ricco programma di incontri per insegnanti e cittadini.
Tempo pieno: un’organizzazione pedagogica
Bruno Ciari evidenzia come una corretta e produttiva educazione democratica richieda ed imponga uno sviluppo completo e multilaterale del bambino, che deve potersi giovare di una molteplicità di attività. [6]
Il modello del TP è caratterizzato sin da subito dall’estensione degli insegnamenti curricolari, per concedere tempi di apprendimento consoni ai ritmi di tutti gli allievi, e dalla comparsa di attività integrative, inizialmente individuate come “insegnamenti speciali”, per arricchire quella che oggi si definisce l’offerta formativa. La gestione didattica di questa nuova complessità impone il ricorso a una collegialità effettivamente diffusa e praticata a più livelli. [7]
Nelle scuole torinesi ha una notevole influenza il pensiero di Francesco De Bartolomeis, che teorizza una scuola basata su un sistema di laboratori, con particolare attenzione per l’espressione creativa e artistica, e l’organizzazione per gruppi di lavoro. Importante il suo contributo anche sul rapporto tra scuola e territorio, sintetizzato in quel “far scuola fuori dalla scuola” che apre l’orizzonte delle situazioni di apprendimento e si coniuga con la ricerca in ambiente.
La Baretti è una delle prime scuole medie di Torino a introdurre il tempo pieno, con una organizzazione flessibile delle attività curricolari e integrative e con l’introduzione di tecniche laboratoriali, anche mutuate dall’animazione, nell’insegnamento disciplinare.
Nel sistema generale vengono integrati alcuni tecnici esterni, chiamati a gestire laboratori permanenti, come l’atelier di pittura, e temporanei (con la collaborazione di artisti e animatori specializzati) o per realizzare interventi mirati con la guida di un professionista. Il tutto all’interno del progetto educativo e didattico scolastico, in cui il curricolo è il contenitore e insieme il regolatore dei diversi tipi di interventi e contributi.
L’orizzonte pedagogico è la valorizzazione delle risorse e delle potenzialità di ciascun allievo, quello culturale è lo sviluppo delle competenze di cittadinanza in tutti i ragazzi, mentre la didattica è centrata sulle pratiche cooperative e l’apprendimento attivo-esperienziale.
E’ su questa base che le classi a tempo pieno praticano sistematicamente l’esperienza conoscitiva in ambiente, nel nostro caso la città, indagata nei diversi aspetti che ne costituiscono la complessità: dai servizi al patrimonio storico e culturale, attraverso un programma sistematico di uscite, visite e laboratori sul campo. [8]
Nella Barriera di Milano, periferia di storica vocazione industriale e tradizione operaia, la scuola ha sempre avuto un ruolo riconosciuto per l’emancipazione individuale e sociale: negli anni dello sviluppo del tempo pieno qui, come in altri quartieri simili, era tangibile l’idea di apertura alla partecipazione sociale di questo modello scolastico. Si sono costruiti rapporti collaborativi e di fattiva continuità tra scuole, ad esempio per la formazione delle classi con colloqui diretti tra insegnanti. Con l’istituzione dei consigli di circolo e di istituto la partecipazione dei genitori si è fatta concreta, stringendo il rapporto con le realtà più vitali del territorio e con le nuove forme del decentramento amministrativo, come il comitato di quartiere, per la realizzazione di iniziative comuni. Una tradizione che, in forme diverse, continua ancora oggi.
Il domani nell’oggi
Non è certo questa la sede per una analisi compiuta dell’evoluzione del tempo pieno nei sui primi cinquant’anni; al massimo per una brevissima riflessione personale sul come si sia prima trasformato e poi avviato al declino, soprattutto nella scuola media (ora secondaria di I grado). Da più parti si accusano, giustamente, le politiche di depauperamento della scuola varate da governi di segno politico diverso, su tutte la riforma Moratti (lg 53/03). Tuttavia un certo svuotamento del TP è avvenuto anche dall’interno, con il progressivo abbandono della sperimentazione-ricerca didattica, il ritorno a forme di insegnamento trasmissivo favorite dal dilagante uso dei voti, la frequente totale delega delle attività integrative, e persino di parti di curricolo, ad associazioni esterne oppure il loro confinamento in progetti temporanei.
Tra le molte concause che hanno influito su questo processo di involuzione, mi limito a segnalarne tre, osservate direttamente: l’instabilità dell’organico con il continuo turn-over di docenti precari, l’uso limitato e non strategico degli strumenti offerti dall’autonomia scolastica, la mancanza di una formazione specifica per gli insegnanti del tempo pieno, che troppo spesso vi si trovano inconsapevolmente assegnati a coprire cattedre vacanti.
Nonostante l’evidente stato di crisi, oggi vi sono alcune condizioni per sostenere la possibilità di utilizzare i principi pedagogici e gli orientamenti didattici che provengono dall’esperienza del tempo pieno per intervenire efficacemente sui tempi e sui processi di apprendimento, su cui occorre aprire una profonda e circostanziata riflessione. Una interessante prospettiva è contenuta nelle recentissime linee pedagogiche per lo zerosei che aprono lo spazio per il ripensamento dell’idea stessa di curricolo [9], che rappresenta il principale strumento con cui la scuola realizza il proprio mandato. Attraverso il curricolo la scuola entra da protagonista nella relazione con gli altri soggetti attivi nella “città educativa”, da rilanciare come progetto politico in grado di riportare sotto il coordinamento e il controllo pubblico il sistema delle reti territoriali per la formazione permanente alla cittadinanza.
Al di là di un “romanticismo pedagogico” che vagheggia il tempo pieno delle origini, è la stessa OCSE che ci potrebbe aiutare a riscoprire l'attualità del tempo pieno, quando rilancia alla scuola l'imperativo del “ripensare e ri-professionalizzare” i propri compiti, verso il duplice obiettivo di garantire accoglienza, tenuta sociale, confronto tra diverse culture, condivisione di regole, convivenza civile e, soprattutto, assicurare competenze di base, sotto forma di una solida formazione al pensare, di gusto nell'affrontare i problemi, di creatività, di capacità meta- cognitiva.
Con questa piattaforma educativa si torna al punto di partenza, ai caratteri originari di un “buon” tempo scuola, al suo dispiegarsi tra vocazione all'accoglienza sociale e rigore nella proposta didattica. [10]
1. G.Cerini, “MITICO (?!) TEMPO PIENO… Ragioni e immaginario di un persistente successo”, EDSCUOLA 2003.
2. E. Catarsi, La scuola a tempo pieno in Italia: una grande utopia, Edizioni del Cerro 2004.
3. MCE: Movimento di Cooperazione Educativa, nato in Italia nel 1951 sulla scia del pensiero pedagogico di Célestin ed Elise Freinet.
4. "Carta delle città educative", Conferenza di Barcellona - 1990.
5. AA.VV. , Tempo pieno e metropoli, edizioni Stampatori – Torino 1978; qui la scansione del testo originale.
6. E. Catarsi, op. cit.
7. "Le attività integrative della scuola elementare, nonché gli insegnamenti speciali, con lo scopo di contribuire all’arricchimento della formazione dell’alunno e all’avvio della realizzazione della scuola a tempo pieno, saranno svolti in ore aggiuntive a quelle costituenti il normale orario scolastico (…) Il conseguimento dello scopo di cui sopra dovrà scaturire dalla collaborazione, anche mediante riunioni periodiche, degli insegnanti delle singole classi e di quelli delle attività integrative e degli insegnamenti speciali" .(Legge n. 820/1971).
8. Cfr. Tempo pieno e metropoli, cit.
9. “Nella costruzione del curricolo e della progettazione è importante che educatori/insegnanti abbiano in mente le direzioni di sviluppo da perseguire durante il percorso, nella consapevolezza che gli apprendimenti non si sviluppano in modo frammentario né lineare, ma in un continuum in cui ciascuna conquista genera nuove situazioni di apprendimento, in una dinamica evolutiva costruttiva e ricorsiva. In questo senso il curricolo del segmento 0-6 si configura in continuità con il successivo percorso scolastico, nel quale ciascun progresso deve poggiare su basi solide che si costruiscono proprio nei primi anni di vita del bambino”, Linee pedagogiche per il sistema integrato “zerosei”, Commissione nazionale per il sistema integrato di educazione e istruzione, gennaio 2021.
10. G.Cerini, Il tempo scuola come variabile pedagogica, 2005.
Immagine a lato del titolo da Cesp - Centro studi per la scuola pubblica.