Tra i vari e diversi decreti legislativi che il Governo è autorizzato a emanare in base a quanto previsto dai commi 180 e 181 dell’art. 1 della legge 107/2015, ve n’è uno che riguarda in modo specifico il processo di inclusione scolastica degli allievi diversamente abili. Al comma 181, lett. c) si dice infatti che la “promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità e il riconoscimento delle differenti modalità di comunicazione” avverrà attraverso “la ridefinizione del ruolo del personale docente di sostegno al fine di favorire l’inclusione scolastica degli studenti con disabilità, anche attraverso l’istituzione di appositi percorsi di formazione universitaria”.
L’espressione usata dalla legge è tanto sibillina quanto preoccupante per i suoi possibili risvolti operativi e culturali. In questo senso sembra che venga ipotizzata una figura di insegnante di sostegno superspecializzato, non più agganciato a una classe di concorso (almeno per quanto riguarda la scuola secondaria di I e II grado), ma qualificato attraverso una specifica formazione universitaria tutta centrata sui temi della disabilità. Sarebbe invece più opportuno pensare a una abilitazione relativa alla propria area di competenza, completata da un serio percorso specialistico sulla didattica inclusiva, che fornisca dei reali strumenti per sostenere al meglio i ragazzi certificati nel percorso di studio. Infatti il passaggio non è chiaro, e il rischio di approdare a un docente di sostegno “esclusivo” incombe.
Non dobbiamo sottovalutare la delega costante al docente di sostegno da parte del Consiglio di classe, che ad oggi già rappresenta uno dei maggiori ostacoli per l’inclusione scolastica. Una sola figura non può farsi carico di tutta la didattica volta all’inclusione di un allievo in un gruppo classe e all’interno dei percorsi scolastici dedicati all’autonomia di vita o di metodo di studio e all’incremento dell’autostima per i ragazzi con programmazione curricolare semplificata.
La filosofia che ispirò la legge 517 del 1977 (e le successive normative) vedeva l’insegnante di sostegno come una risorsa aggiuntiva per l’intera classe, che legava il successo del processo di integrazione al coinvolgimento di tutto il gruppo docente del Consiglio di classe. Il docente di sostegno diveniva (ma lo è diventato?) un regista del processo d’integrazione, attivando anche contesti e ambienti formativi specifici e collaborando con i colleghi, pur sempre agganciati coscientemente a una propria funzione didattica ed educativa, ma in un contesto in cui ogni docente doveva svolgere coscientemente il proprio ruolo all’interno di tale processo.
D’altra parte la figura di sostegno specializzato per un solo allievo, diviene autoreferenziale e naturalmente distaccata dalle dinamiche della classe, nonché potrebbe comportare il rischio di percorsi speciali separati. Una criticità del genere è alla base dei problemi dell’inclusione odierna. Tutto ciò lede i diritti dei ragazzi, che non possono avere una programmazione pensata, svolta e verificata da un unico docente con voce in capitolo. Per quanto riguarda gli studenti con programmazione curricolare con obiettivi minimi, non è pensabile un’unica figura che li possa seguire con un’efficace metodologia didattica su tutte le materie del curricolo. L’insegnante di sostegno è un facilitatore, ma se non partecipa alle fasi di programmazione delle discipline, come può facilitare le stesse? A dire il vero questo non è ancora delineato nella legge. In tal senso è condivisibile la posizione di Paolo Fasce, docente di matematica specializzato per il sostegno, che propone una cattedra mista sostegno-materia, “per valorizzare la bis-abilità dei tanti docenti specializzati. Nel contesto attuale, ma anche con la proposta di legge alla Camera n. 2444 sull’inclusione da parte di FISH [Federazione Italiana Superamento Handicap] e di FAND [Federazione Associazioni Nazionali Disabili], si chiede infatti una scelta di campo che è dannosa per gli alunni, spesso affidati a insegnanti non specializzati, e per gli insegnanti, costretti a sclerotizzare il loro lavoro in un’unica modalità. “Ecco perché proponiamo – precisa Fasce- l’istituzione della cattedra mista, che consentirebbe di comporre cattedre di 18 ore, grazie a un sempre possibile completamento sul sostegno da inquadrarsi nell’ottica di una concreta implementazione dell’organico funzionale; di consentire una variazione motivante delle mansioni (?) degli insegnanti; di recuperare risorse preparate sul tema, annullando il ricorso a personale non specializzato. In questo modo si possono avere nella scuola persone preparate e motivate” [1].
Contro la separazione dei ruoli è anche Alessandra Cenerini presidente ADI che afferma: “Come ADI siamo convinti che non debba esserci separazione fra l’insegnante curricolare e l’insegnante di sostegno. Dobbiamo ambire a competenze diffuse per una scuola davvero inclusiva […] È quindi fondamentale, in questo discorso, partire da una formazione iniziale in un’ottica inclusiva di tutti gli insegnanti, ma bisogna anche formare dei professionisti dell’inclusione.” [2].
La criticità della delega all’insegnante esclusivo non è una paura infondata, basti pensare alla reazione e all’atteggiamento ostruzionista del corpo docente odierno verso i BES in genere. Attualmente ci sono interi Consigli di classe che si scontrano sulle modalità di applicazione dei PDP, che talvolta si rifiutano di attuare perché rappresentano un carico di lavoro aggiuntivo, che a loro avviso in parte non gli compete. Si sente invocare continuamente la figura di uno specialista che si faccia carico della stesura del materiale specifico e che possa dare indicazioni precise sul da farsi agli insegnati già tanto oberati.
Il pericoloso processo di delega, che tanto è stato paventato in questi anni rischia di verificarsi e di portare il consiglio di classe alla deresponsabilizzazione nei confronti del processo di inclusione, che dovrebbe coinvolgerlo interamente, mentre addirittura la normativa lo giustificherebbe (visto che ci sarà un docente appositamente formato e nominato allo scopo). Mario Rusconi (Vicepresidente ANP) infatti parla di "iperspecializzazione come delega in bianco all’insegnante di sostegno". Delega alla quale assistiamo già oggi. Quante volte abbiamo sentito insegnanti curricolari che, rivolgendosi ai colleghi di sostegno, dicono: «Il tuo alunno dà fastidio, portalo fuori» [3].
Una lettura restrittiva e iperspecialistica della legge 107 può portare purtroppo a questi risultati. Eppure è possibile intraprendere un’altra strada, rispetto alla settaria separazione delle carriere, molto più innovativa: quella della specializzazione sui processi di inclusione anche per tutti i futuri docenti neo assunti; in questo senso nel giro di qualche anno potremmo avere docenti non solo laureati come tutti, ma nel contempo tutti specializzati sui temi della disabilità e dell’inclusione, con una reale assunzione di responsabilità da parte di tutti i docenti. La mancanza di questa presa di coscienza, per non parlare dell’ignoranza del CDC e di alcuni Dirigenti scolastici, è il primo motivo del disagio e della frustrazione, che porta all’abbandono i docenti di sostegno, (soprattutto di quelli più preparati e motivati) che spesso si sentono perennemente in conflitto, alienati, e trattati quotidianamente come docenti di serie B da colleghi che, per mancanza di preparazione adeguata, esordiscono spesso in modo ignorante e imbarazzante, non di rado anche di fronte ai ragazzi in classe. Il vero esodo dal sostegno alla materia è dovuto in larga misura ai docenti che non collaborano e rendono farraginosi i processi di inclusione. Nasce così una faticosa battaglia motivata da una grande passione, che sfianca letteralmente l’insegnante di sostegno, che decide di ripiegare sull'insegnamento della materia (per riacquistare un minimo di autostima e soddisfazione) o sull’autoreferenzialità nei confronti dei soli casi differenziati, dove nessun altro docente “mette bocca”. Non a caso è perenne il dilemma se far passare un allievo da semplificato a differenziato all’interno dei CDC, dove i docenti raramente sono concordi sul raggiungimento degli obiettivi minimi, anche da parte di allievi certificati aventi quozienti intellettivi sufficienti per perseguirli.
Ritornare al modello culturale della separazione, anche se realizzato dentro le classi comuni, porterà probabilmente gli alunni diversamente abili ad essere reale competenza del solo insegnante di sostegno. È noto che questo stretto legame tra insegnante di sostegno e alunni disabili è gradito anche da molte associazioni dei genitori dei disabili, preoccupati della mancanza di continuità didattica che la scuola non sempre riesce a garantire nel processo di integrazione.
Dello stesso avviso è la FISH che invoca, attraverso la voce di Vincenzo Falabella la separazione delle carriere con l’attivazione di una laurea dedicata: “In questo modo, fa sostegno chi ha la vocazione a farlo, mentre attualmente questa posizione è spesso utilizzata come tramite per diventare insegnanti curricolari” [4]. Questo parere volto al potenziamento della continuità del progetto didattico è condiviso dall’avvocato Salvatore Nocera (vincitore di diversi ricorsi nei confronti delle istituzioni scolasiche in materia di sostegno).
D’altra parte è necessario pensare a una maggiore specializzazione dell’insegnante di sostegno, che deve essere oggetto di un’ampia e curata formazione continua verso le didattiche innovative e i linguaggi, per favorire la comunicazione dei contenuti disciplinari (anche attraverso il linguaggio dei segni e il Braille). È fondamentale pensare che per accedere a questo tipo di insegnamento, si deve essere disponibili e portati verso la flessibilità e la costante ricerca, per facilitare la comunicazione dei contenuti verso le varie tipologie di handicap. Il docente abilitato per il sostegno deve studiare più a lungo e in modo più specifico (non sono efficaci i corsi di un anno o come negli ultimi tempi ridotti a 800 o 400 ore). La vocazione a questo tipo di impiego, deve palesarsi attraverso una forte motivazione, che porta gli aspiranti dopo la laurea a prolungare gli studi universitari con corsi biennali specialistici (comprensivi di periodi di tirocinio attivo eventualmente retribuiti) e ad attuare una ricerca innovativa costante, come specialisti di una didattica compensativa e inclusiva.
1. Cfr. P. Fasce, "Una cattedra mista per docenti bis-abili" in D. Janes e F. Tomasi, Insegnanti di sostegno: verso la separazione della formazione e dei ruoli?, Idee e documenti dal 10° Convegno Erickson «La Qualità dell’integrazione scolastica e sociale» Rimini, 13-14-15 novembre 2015, Erikson, Trento, 2015; reperibile in rete a questo indirizzo.
2. Cfr. A. Cenerini, "Professionisti dell'inclusione per competenze diffuse", in D. Janes e F. Tomasi, op.cit.; reperibile in rete a questo indirizzo.
3. Cfr. M. Rusconi, "Iperspecializzazione come delega in bianco all’insegnante di sostegno", in D. Janes e F. Tomasi, op.cit.; reperibile in rete a questo indirizzo.
4. Cfr. V. Falabella, "Ruoli separati: l’unica via possibile per una scuola inclusiva", in D. Janes e F. Tomasi, op.cit.; reperibile in rete a questo indirizzo.
Nell'immagine in alto "Fleurs", scultura dell'artista siriano Nazir Ali Badr, da Le pierres de l'artiste syrien Nazir Ali Badr.