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04/01/2022

La cittadinanza critica è un’intenzione collettiva, non un’acquisizione individuale e depositaria

di Marco Guastavigna

Quasi tutte le nostre insegnanti alla Booker T. Washington erano donne nere, votate a nutrire il nostro intelletto per darci la possibilità di diventare studiosi, pensatrici e operatori culturali – persone nere capaci di usare la “testa”. Comprendemmo presto che la nostra devozione verso l’apprendimento e la vita della mente era un atto contro-egemonico, un gesto fondamentale di resistenza alle strategie di colonizzazione razzista bianca. Sebbene non definissero o spiegassero queste pratiche in termini teorici, le mie insegnanti mettevano in atto una pedagogia rivoluzionaria della resistenza, profondamente anticoloniale. (…) Amavo studiare, adoravo imparare. La scuola era il luogo dell’estasi: piacevole e pericolosa. Sentirmi trasformata dalle idee era piacere puro (…) Con l’integrazione razziale, la scuola cambiò completamente.  (…) la conoscenza riguardava solo l’informazione. Non aveva alcuna relazione con il modo in cui una persona viveva e si comportava. Non era più collegata alla lotta antirazzista. Nelle scuole bianche imparammo presto che ciò che ci si aspettava da noi era l’obbedienza, e non la volontà zelante di imparare. La passione eccessiva per l’apprendimento veniva facilmente interpretata come una minaccia all’autorità bianca.
Il nostro ingresso nelle scuole razziste, desegregate e bianche ha segnato l’abbandono di un mondo in cui le insegnanti erano convinte che per educare i giovani neri nel modo più giusto fosse necessario l’impegno politico.  (…) La scuola restava in ogni caso un luogo politico, dal momento che dovevamo continuamente contrastare i pregiudizi razzisti dei bianchi che ci consideravano geneticamente inferiori, mai capaci come i nostri coetanei bianchi – persino incapaci di imparare. Tuttavia, la nostra politica non era più contro-egemonica. (…)”.

A raccontare questa vicenda, in cui la scuola cessa all’improvviso di essere luogo di pratica di libertà collettiva e interattiva - e solo successivamente individuale e personale -, è bell hooks , appena scomparsa e autrice di Insegnare a trasgrediredi recente ristampato in italiano nella collana "Culture radicali", diretta dal gruppo di ricerca Ippolita.
È questo il primo libro che può leggere (o rileggere), chi intende riflettere in modo davvero significativo ed efficace su come i percorsi di istruzione possono contribuire alla costruzione di cittadinanza critica. In tempi di capitalismo di piattaforma globalizzato, cambiamento climatico, migrazioni, sindemia, crisi della rappresentanza democratica, infatti, il tema della de-colonizzazione di istruzione, insegnamento e apprendimento come atto politico-culturale collettivo e intenzionale non può – a mio giudizio – essere ulteriormente procrastinato.

 


Ma non basta. La decolonizzazione di chi è stato oggetto del potere coloniale e della “colonialità” (la mentalità costruita dal colonialismo storico) richiede anche quella dei colonizzatori. Questa netta affermazione si colloca tra i concetti organizzatori del pensiero di Boaventura de Sousa Santos, un pensatore che mi ha davvero folgorato. Confesso anche che l’ho scoperto da poco, perché sono nella fase della vita biologica e intellettuale che consente di studiare e imparare tra le suggestioni della serendipità e i suggerimenti dei motori di raccomandazione. Il suo concetto più potente e per certi aspetti visionario è l’individuazione della linea abissale, che segna la separazione tra società e socialità metropolitane (Nord) e società e socialità coloniali (Sud). Fondato in modo esclusivo sulla modernità occidentale, e quindi, oltre che sul colonialismo, su capitalismo e patriarcato, il pensiero abissale dà per scontata la demarcazione e le esclusioni che ne derivano, al punto da invisibilizzarle, con l’universalizzazione forzata dei propri principi e valori, forma di mondo verso cui tutti devono tendere, unico modello di progresso e sviluppo possibile.

Questo approccio produce un epistemicidio di massa, distruggendo culture e conoscenze incompatibili con l'impero cognitivo eurocentrico, che si va ad aggiungere alla deprivazione ontologica globale, ovvero al rifiuto di riconoscere la piena umanità dell’altro, perché non corrispondente alle coordinate egemoniche.

La supremazia occidentale è però messa in discussione e combattuta dalle insorgenti epistemologie del Sud, post-abissali, che agiscono per la piena giustizia cognitiva, valorizzando tutte le conoscenze autenticamente utili per le lotte contro l’oppressione, scritte e orali, libere da gerarchizzazioni assolute e preconcette tra saperi scientifici e saperi artigianali e liberate dall’autorialità individuale possessiva tipica dell’accademia metropolitana.
Quella della lotta contro la dominazione deve piuttosto essere “conoscenza con”, capace di dare vita a relazioni culturali e interazioni soggetto-soggetto e intenzionalmente opposta alla “conoscenza su”, che mira invece per vocazione all'estrazione utilitarista dall’oggetto e all’appropriazione, all'assimilazione e alla sussunzione. Il ricercatore post-abissale deve pertanto configurarsi come intellettuale di retroguardia, il cui compito non è l’auto-riflessività speculativa individuale, ma l’impegno diretto nelle pratiche di lotta collettive.
In questa prospettiva anche la scienza, rigorosa nei metodi, deve però essere considerata e imparare a considerarsi un sapere comunque parziale, in dialogo costante e aperto con altri saperi, sui quali non esercita alcun primato.
Fare i conti con queste e altre affermazioni di de Sousa Santos – come penso sia facilmente intuibile da chi ha compiuto fino ad ora percorsi di studio occidento-centrici – è stato per me un salutare straniamento, una boccata di ossigeno rispetto ai dibattiti sempre più asfittici e autoreferenziali sull’istruzione italiana.

Allontanarsi da fautori delle competenze adattive al mercato del lavoro, pedagofobi, sovranisti della lezione frontale, evangelisti dell’innovazione, templari delle discipline e così via mi ha restituito voglia e piacere di imparare, di fare i conti con un sapere dinamico, non già posizionato in modo inerziale in un certo scaffale. In particolare quando lo studioso portoghese affronta i cardini dell’impianto epistemologico a cui imputa costruzione e rafforzamento dell’eccezionalità occidentale nei confronti del resto del mondo:
“il rigore, concepito come determinazione; l’universalismo – concepito come specificità della modernità occidentale – che si riferisce a qualsiasi entità o condizione la cui validità non dipende da uno specifico contesto sociale, culturale o politico; la verità, intesa come rappresentazione della realtà; la distinzione tra soggetto e oggetto, conoscente e conosciuto; la natura come res extensa
; il tempo lineare; il progresso della scienza attraverso le discipline e la specializzazione;  la neutralità sociale e politica come condizione di obiettività. (…)”.


Ovviamente le occasioni per riflettere e acquisire punti di vista problematizzati e problematizzanti – senza necessariamente abbracciare in toto o rifiutare con sdegno, ovvero senza cadere nella polarizzazione continua a cui ci vorrebbe ridurre il pensiero referendario  
sono molte altre. Ne voglio segnalare ancora due, a mio giudizio particolarmente illuminanti.

La prima è
Pluriverso. Dizionario del post-sviluppo, liberamente scaricabile in lingua inglese, che contiene più di cento brevi saggi.
Il filo rosso che unisce questi testi è la consapevolezza dell’inganno capitalista e neoliberista: “il discorso convenzionale sullo sviluppo (…) vede il progresso economico come un passaggio dal non monetizzato al monetizzato, dal comune al privatizzato, dal locale al globale, dall’artigianale al prodotto di massa. In questa prospettiva, le tradizionali economie sociali e solidali sono considerate arretrate, improduttive e condannate all’invisibilità.”. (54. Nadia Johanisova e Markéta Vinkelhoferová, "Economia sociale e solidale").
Inoltre il volume ribadisce più volte la necessità di mettere in discussione in modo radicale, a volte anche provocatorio, semantizzazioni e quadri concettuali ed epistemologici che vengono dati per scontati: “la teoria sociale egemonica frammenta la società in sfere: economia, società, cultura e politica. Definisce l’economia come un sistema di mercato autoregolato che, lasciato alle proprie leggi, risolverebbe in modo ottimale l’allocazione delle risorse, compresa la forza lavoro” (53. Natalia Quiroga Diaz, Economia popolare, sociale e solidale).
Anche quest’opera è infatti una critica radicale a più voci, che sfida l’universalismo monoculturale dominante e il modello di civilizzazione (economia+società+politica+cultura+mentalità) della modernità occidentale, così sintetizzato da Arturo Escobar, uno dei curatori - in "104. Transizioni civilizzanti”:

  • classificazione gerarchica delle differenze in termini di scala razziale, di genere e di civiltà (…);
  • dominio economico, politico e militare sulla maggior parte delle regioni del mondo;
  • capitalismo e i cosiddetti liberi mercati come modalità di economia;
  • secolarizzazione della vita sociale;
  • liberalismo egemonico basato sull’individuo, la proprietà privata e la democrazia rappresentativa;
  • sistemi di conoscenza basati sulla razionalità strumentale, con la sua marcata separazione tra uomo e natura (antropocentrismo).
 

Il rifiuto dell’antropocentrismo caratterizza con chiarezza anche l’ultima delle mie proposte di rigenerazione epistemologica e ontologica rivisitando l’apprendimento in prima persona, Posthuman glossary.
Curato da Rosi Braidotti e da Maria Hlavajova, è di nuovo un volume a più voci, il cui focus è la denuncia della contrapposizione tra natura e società e dell’auto-assegnazione da parte degli esseri umani, in base a una loro presunta eccezionalità, del diritto di sfruttamento indiscriminato sulle risorse della Terra, considerate e computate come capitale.

La prefazione di Braidotti contiene poi un prezioso riferimento agli “studi critici”, che sono tali nelle intenzioni prima ancora che negli esiti e che consapevolmente violano gli steccati disciplinari:
 “Il carattere cognitivo del capitalismo contemporaneo e la sua alta mediazione tecnologica hanno paradossalmente prodotto uno stato d’animo “post-teoria” e hanno intensificato gli attacchi al pensiero radicale e al dissenso critico. Questo stato d’animo negativo ha anche provocato critiche al valore sociale e accademico delle discipline umanistiche, in un’università aziendale neo-liberale governata da un’economia quantificata e dal motivo del profitto. Eppure, la vitalità del pensiero critico nel mondo di oggi è palpabile, così come lo spirito di ribellione che lo sostiene. La pratica teorica potrebbe essersi bloccata nel mondo accademico, ma è esplosa con rinnovata energia in altri settori, nei media, nella società, nelle arti e nel mondo aziendale. Nuove generazioni di aree di “studi” critici sono cresciute accanto alle epistemologie radicali classiche degli anni ’70: genere, femminismo, queer, razza, studi postcoloniali e subalterni, studi culturali, film, televisione e studi sui media. La seconda generazione di aree di “studi” critici include studi sugli animali e l’ecocriticismo; studi culturali della scienza e della società; studi di religione; studi sulla disabilità; studi sui grassi; studi di successo; studi sulle celebrità; studi sulla globalizzazione; e tanti altri. I nuovi media hanno generato nuovi meta-campi: studi sul software, studi su Internet, studi sui giochi, studi postcoloniali digitali e altro ancora. La fine della Guerra Fredda ha generato studi sui conflitti e ricerche sulla pace; studi sui diritti umani, gestione umanitaria; medicina orientata ai diritti umani; studi su traumi, memoria e riconciliazione; studi sulla sicurezza, studi sulla morte; studi sul suicidio; e l’elenco è ancora in crescita. Queste diverse generazioni di “studi” costituiscono ora una forza teorica da non sottovalutare.
La teoria [critica di un modello di mondo e di cultura] è tornata!”.


Approfittiamone: istruiamoci, perché abbiamo e avremo sempre più bisogno di tutta la nostra intelligenza.

 

 

Scrive...

Marco Guastavigna Insegnante di Scuola secondaria di secondo grado e formatore, si occupa da quasi trent’anni di “nuove” tecnologie e rappresentazioni grafiche della conoscenza.