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14/08/2014

Ripensando al prof. Keating...

a cura di insegnare

La morte di Robin Williams ha riportato alla memoria di molti la figura del prof. Keating.

Quel film e quel modello di insegnante hanno sempre suscitato sensazioni forti e talvolta contrastanti e allora questa circostanza potrebbe offrirci l'occasione per riflettere su quell'idea di docente, di scuola, di educazione, di società (della poesia) e quindi, indirettamente, sulla natura del nostro mestiere, oggi.

Riportiamo le prime riflessioni di alcuni docenti di lettere di scuola superiore, ma la ricerca di spunti di riflessione è ovviamente aperta a tutti... Chi lo desidera può scrivere a redazioneinsegnare2010@gmail.com  Riflessioni brevi, diciamo al massimo... una decina di cinguettii (circa 1400 battute, spazi inclusi).

Grazie.
La redazione

Riflessioni di ...  Elena Cassani, Maurizio Muraglia, Margherita Fratantonio, Marco Guastavigna, Fiorenza Turiano,  Cristina Bani, Rosanna Angelelli, Isa Iori, Lina Grossi,  Ermanno Morello, Maria Rosa Giannalia , Mariella Ficocelli, 

 


“O capitano, mio capitano”

Chi almeno una volta nella vita non ha sognato di possedere il carisma del prof. Keating interpretato da Robin Williams ne L’attimo fuggente?
Sapeva toccare il cuore dei ragazzi con la poesia e la letteratura che diventavano strumento per “insegnare” a vivere, o meglio a impossessarsi della propria vita e costruirsi una propria identità. Riusciva a inculcare entusiasmo per la cultura vera, quella che non si limita all’analisi formale voluta dai manuali, ma che evidenzia il potere del pensiero, delle idee e delle parole capaci di cambiare il mondo.
Faceva sentire i ragazzi attori nello spettacolo della vita e li invitava a percorrere strade nuove senza curarsi dei giudizi altrui.
Insegnava loro che il rimpianto più grande è vivere la vita di un altro o vivere da spettatore e accorgersi, quando ormai è troppo tardi, di non aver “colto l’attimo”.
Li invitava a non limitarsi a guardare il mondo da un solo punto di vista e allora... tutti in piedi sui banchi con il prof Keating a guardare le cose da un punto di vista diverso, senza pregiudizi e suggestioni anche per quanto riguarda l’epilogo della vita di Robin Williams

Elena Cassani, Brescia


Il Prof. Keating è inattuale.

Ci ha fatto sognare tutti e molti di noi vi si sono rispecchiati. Cominciai a insegnare due anni prima di quel film e non posso negare di esserne rimasto sedotto. E tutt’ora lo sono. E non mi faccio scrupolo di far cose strane in classe, di far ridere i miei alunni, di ridere con loro, se è il caso di strappare una pagina del libro di testo. E di fare altre cose che hanno il solo scopo di far sentire che l’avventura della conoscenza è la cosa più bella che ci sia, anche nei rischi che comporta. “Lei ci mette in crisi”, ancor oggi mi sento dire. E ripenso a quel film. Ma in tempi di Invalsi, di punteggi, di voti numerici, di graduatorie, di standard e di profili in uscita mi sento non poche volte profondamente inattuale. L’autonomia scolastica avrebbe potuto e dovuto liberare energia, creatività, divergenza, facendo giustizia dei vecchi noiosissimi programmi, e invece i nostri Esami di Stato sono il trionfo del conformismo e del nozionismo. Uno come Keating non avrebbe avuto cosa scrivere in un documento del 15 maggio perché un occhiuto commissario esterno avrebbe subito avuto qualcosa da ridire sulla “completezza dei programmi” e sulle “griglie di valutazione”.  La scuola che cacciò via Keating non è meno burbera di questa di un quarto di secolo dopo, che non caccia nessuno dalle classi ma insegue i meritevoli promettendo lauti guadagni a chi assumerà incarichi organizzativi o porterà innovazioni tecnologiche strepitose. Non sono convinto che oggi salire sulla cattedra ed esortare a strappare pagine dai libri di testo costituirebbe criterio preferenziale per l’attribuzione del merito. Con buona pace di coloro che cercano ogni mattina di fare qualcosa che per i nostri ragazzi abbia il sapore della libertà.

Maurizio Muraglia, Palermo


"Se incontri un Buddha per la strada, uccidilo"

Sono passati venticinque anni e “Noi, quelli di allora, più non siamo gli stessi”, come scriveva Neruda. Nell’89-90, accompagnavamo al cinema gli studenti per L’attimo fuggente, perché passasse il messaggio di valori profondamente nostri: la poesia, l’autenticità, la ricerca di se stessi fuori dalle imposizioni.
Poi, quelli di allora, siamo cresciuti e la figura del prof. Keating introiettata si è affievolita, rafforzati in un modello a lui simile, ma non sempre altrettanto efficace, perché la straordinarietà del personaggio era tutta nella sua unicità e in una scuola repressiva come contesto.
E noi, generazione di capitani, abbiamo cominciato ad interrogarci sul senso del salire provocatoriamente sulla cattedra, anziché in cattedra e sui comportamenti sovversivi, quando pareva ci fosse poco da sovvertire. Il prof. Keating è diventato un po’ il nostro fratello maggiore, a cui si possono muovere critiche quando si diventa a nostra volta adulti. Abbiamo cominciato a notare l’eccesso di protagonismo, un Ego che non rispettava i tempi di ciascuno, fino a forzare delle situazioni con gli esiti che sappiamo. La massima Se incontri un Buddha per la strada, uccidilo (dal libro di Sheldon B.Kopp) ci rappresentava meglio del prof. Keating, mentre ci interrogavamo sui confini e sulla giusta distanza nella relazione educativa.
Non sapevamo invece quanto la scuola avrebbe perso la sua di identità democratica, per farsi quello che è oggi, un doppio legame nei messaggi di cittadinanza e liberalità, in un quotidiano che li nega spudoratamente. E quanto ci sarebbe mancato quel coraggio, se pure narcisistico, da cui ci siamo allontanati fin troppo.

Margherita Fratantonio, Milano


Da modello a icona retorica

Keating? Due giudizi diversi. Molto diversi: una sorta di modello, allora; insopportabile icona retorica, adesso.
L’idea di un professore carismatico, indimenticabile, decisivo – nel bene e nel male – per le scelte di più di un allievo, uno di quegli insegnanti insomma che faranno certamente parte della scuola narrata (ad amici, figli, nipoti e così via), mi affascinava e attirava nei primi anni di questa “carriera”, quelli in cui pensavo di cambiare le cose. Di contribuire a un processo di emancipazione democratica.
Ora mi vengono piuttosto in mente Steve Jobs e Eric Hobsbawm.
Il primo è quasi perfettamente sovrapponibile a K. per la sua idea di autonomia realizzata attraverso la dipendenza e la consegna di sé a un’ispirazione: se tutti “penseranno differente”, ovvero riconosceranno l’amichevolezza delle interfacce del mondo Apple e di conseguenza si fidelizzeranno ai suoi prodotti commerciali, quegli stessi tutti potranno utilizzare facilmente e rapidamente le tecnologie più adatte al mondo della comunicazione veloce.
Il secondo rappresenta invece un’evidente - anche se involontaria - negazione dell’altra ragione del fascino di K.: “La fine della cultura. Saggi su un secolo in crisi di identità”, riaffermando e argomentando la tesi della fine a partire dal 1914 della civiltà creata dalla borghesia per se stessa, assesta infatti un durissimo colpo al primato della letteratura e in genere della cultura “alta”, prospettiva che rischia così di scadere ad aristocratico arroccamento autorefenziale, messo in atto da chi non sa e non vuole riconoscere la realtà dei fatti e delle esigenze formative e didattiche conseguenti alla dissoluzione e alla mercificazione dell'esperienza estetica.

Marco Guastavigna, Torino

 


La rassegna di questi contributi conferma le sfaccettature complesse della figura di Keating, come di ogni istanza educativa, e soprattutto pone interrogatitivi al nostro mestiere e al modo di viverlo e di interpretarlo, in questo tempo che sembra aver fatto degli sforzi per occultare le contraddizioni l'unica certezza a buon mercato...  

Val dunque la pena proseguire: scriveteci ...


Maestro o seduttore?

Siamo sempre capaci di distinguere un maestro da un seduttore? Io no.
Io spesso mi sono sbagliata:  sono stata attratta dal magnetismo di chi mostrava passione ed entusiasmo, dell'oratore che sapeva trovare la parola giusta per raggiungere ogni pubblico, di chi sembrava generoso e teso verso gli altri. Ho scoperto amaramente e dolorosamente che oltre la patina affascinante  c’era  un seduttore, che agiva mosso da uno sfrenato narcisismo  e che usava la fascinazione per costruirsi intorno  sottilmente un ampio   consenso pubblico come specchio su cui far riflettere la propria immagine.
Il mio bisogno di avere un maestro, di stare nel gruppo, di essere accolta, emozionata e affascinata, ha favorito i miei errori.  Abbiamo tutti bisogno di socialità, di sentire, di vedere e di vivere la passione.  Ma quanti rischi corriamo! La forza della nostra riflessione ci deve tenere vigili per poter distinguere un maestro da un seduttore.
Un maestro è un educatore, cioè una persona capace di far venire fuori ciò che c'è nell'altro e soprattutto ne favorisce l' indipendenza e l'autonomia. Indica l'autodirezione.
Un seduttore, invece,  non tira fuori, ma mette dentro, porta verso se stesso. Mette dentro gli altri la sua immagine, la sua parola e il suo pensiero attraverso l’adulazione e la fascinazione. Spinge verso l'eterodirezione, creando dipendenza, affinché il suo pubblico possa applaudire ogni giorno felice nella convinzione di essere fortunato, ed eletto, ad avere un tale maestro.
Beppe Severgnini scrive: "Ci sono rischi, ovviamente. La domanda di maestri ha creato un’offerta vasta, varia e insidiosa. La parodia del carisma può ingannare chi cerca e ha fretta di trovare. Psicologi e filosofi trasformati in santoni; leader politici impegnati nella costruzione del monumento personale; spericolati improvvisatori new age; sacerdoti che posano da guru; gruppi e sette che dispensano dal pensare e, nel calore del gruppo, addormentano le coscienze. Non salite sul banco, davanti a questi personaggi, come gli studenti del professor Keating; nascondetevi sotto, e tappatevi le orecchie".
Aiutiamo, allora, i nostri ragazzi, e noi stessi, a non lasciarsi ammaliare dai "capitani", che nel lungo corso possono diventare "capitani di sventura". Aiutiamoli a costruirsi strumenti di pensiero per riconoscere i seduttori e gli adulatori, in modo da prenderne le distanze.
Aiutiamoli a non seguire il gregge, ma ad essere egregi.
Chi sta fuori dal gregge deve però alimentare e tenere alto il coraggio dello spirito critico, per riuscire a sostenere  la dissonanza dal gruppo, che, in quanto gruppo offre i vantaggi del calore e dell'unione, dà forza e ragione. Fuori, tra i pochi o da soli, fa freddo. Questo costa tanta fatica, a tutti, insegnanti e studenti, genitori e figli. Non è facile, né per gli adolescenti, né per gli adulti.
Perché nessuno del popolo degli  emozionati per Keating cita Neil, il ragazzo suicida? Abbiamo rimosso alcuni fotogrammi? Insomma, siamo ancora sicuri di dover  guardare al  prof. Keating come ad un modello di buon insegnante?
Nella migliore delle ipotesi è un membro di una "setta di poeti estinti", che seppur in buona fede, procede da incauto apprendista stregone fino a sottovalutare la situazione in cui si trova Neil, che appunto muore suicida.
In ipotesi peggiori, purtroppo tanto diffuse,  può essere il santone o il membro di una setta di "spiriti protettori" che predica salvezza per i pochi e selezionati membri e che attrae facilmente tutti coloro che hanno bisogno di sentirsi speciali e salvati dalle sofferenze della vita.
Chi può rimanere indifferente a tale invito? Appunto, ci aveva tanto attratto ed emozionato questo prof!  Ma il punto debole della vicenda è proprio questo: l’aspetto attraente del keating di turno.
Ma il "film", quello nella scuola come quello nella vita, va visto tutto. Non possiamo selezionare solo i fotogrammi affascinanti.

Fiorenza Turiano, Savigliano (CN)


 

 


Il prof. Keating e la matematica

Quando vidi per la prima volta L’attimo fuggente fui profondamente affascinata dalla personalità e dai metodi del professor Keating, l’insegnante che tutti noi avremmo voluto incontrare almeno una volta nella nostra carriera di studenti. In particolare mi colpì il suo essere in contatto con la vita e il suo sentire profondo che lo portava a smascherare le finzioni e le commedie della scuola e dei suoi protagonisti. Memorabile la scena in cui il prof. Keating chiede ai suoi studenti di strappare la pagina dell’antologia in cui si pretende di indicare un metodo grafico per misurare la grandezza della poesia, o quella in cui sale sulla cattedra e invita a guardare il mondo da una prospettiva diversa, per scegliere veramente chi essere nella vita e non diventare quello che vogliono gli altri. Ritengo infatti che uno dei compiti della cultura sia proprio quello di aiutare le persone a essere se stessi, a scoprire le proprie passioni e a imparare strategie di sopravvivenza nel mondo.
Il 1989, anno in cui uscì il film, è anche stato l’anno in cui ho cominciato a fare l’insegnante alle scuole medie superiori, un lavoro che ho subito amato e che, seppur con momenti di stanchezza, amo ancora oggi. Va da sé che, come insegnante, avrei voluto essere proprio come il prof. Keating. Ricordo che provai una certa invidia per quel professore, soprattutto perché poteva usufruire di strumenti tanto potenti come la poesia e la letteratura. Le mie materie di insegnamento, infatti, sono la matematica e la fisica; discipline affascinanti, ma che poco si prestano a riflessioni di carattere esistenziale. E allora? Come insegnare queste discipline... keatinghianamente? Un punto di partenza per me è stata l’idea di inserire la matematica in un contesto narrativo: creare cornici introduttive, riflettere sulle cose meta-cognitivamente, aprire questioni filosofiche. Insomma recuperare ogni possibilità di connettere queste discipline con il nostro essere uomini.
Col tempo ho compreso tuttavia che il cuore della questione, a cui il prof. Keating era senza dubbio approdato, era di carattere più generale: si trattava di coltivare Eros. Coltivarlo dentro di sé, nelle relazioni con gli altri, con il sapere. Non accontentarsi di “vivere una quieta disperazione”. Solo in questo modo ci si può avvicinare a Keating. Già Platone, allievo di un grande maestro e altrettanto grande seduttore quale fu Socrate, sosteneva che l’istruzione, l’educazione e la formazione delle persone non possono che avvenire attraverso la via emotiva, affettiva ed erotica e più tardi Freud mise in luce come la psiche si formi proprio nell’intervallo fra il desiderio e il suo raggiungimento. Ma coltivare Eros non significa predisporre intenzionalmente un percorso di addestramento emozionale, o preparare ad hoc effetti speciali. È piuttosto un procedere verso una conoscenza che non sia già metabolizzata, una conoscenza che esponga a rischi e che richieda un mettersi in gioco personale. È il desiderio stesso dell’insegnante di rendere affascinante, appassionante e seducente l’esperienza che sta vivendo con i suoi allievi, indipendentemente dalla materia di studio.

Cristina Bani, Rho (MI)


Fuori del coro

A me Keating non era piaciuto. Ci fu una lunga discussione con le mie due classi di triennio. Una era decisamente entusiasta del film, o meglio della personalità del prof. Un’altra più perplessa. I perplessi dicevano che Keating ricordava loro un prof di matematica del biennio, preparatissimo, amicone, ma anche molto pieno di sé. Il rapporto didattico era diventato una sfida impari, perché tanto il prof era un adulto e loro studenti comunque soggiogati perché pischelli.
Troppa personalità, insomma, e troppo bombardamento di suggestioni più che di idee.
Una ragazza arrivò a dire che l’atmosfera del college era insopportabile, e che Keating l’alimentava, suo malgrado, con un “maschilismo dell’intelligenza”. Ora non pensate che questa ragazza fosse un’ardita femminista, tutt’altro, era un esserino minuto e sbiadito, in grado però di percepire lo scontro/incontro di genere (di un solo genere) nella classe di Keating.
Da parte mia, vedendo il film mi ero detta: “Ecco ciò che succede in una classe tutta maschile e in un insopportabile ambiente edoardiano”. Per tutto il film sono andata alla ricerca di un “pensiero femminile” e quando gli studenti sono saliti sui banchi per l’omaggio al prof (che per altro se ne andava) ho pensato: “Quando scenderanno dai banchi, che faranno senza di lui?”.
Gli entusiasti, guardando con una certa sufficienza i perplessi, rilevavano il “carisma” (parola allora molto alla moda) del prof. Quando chiesi loro dell’aspetto cognitivo-culturale delle lezioni del prof, essi glissarono non poco. Uno solo, guardandomi mi disse: “Certo lei è meno simpatica, ma si capisce, Keating è un modello astratto!”.
“Certo, risposi, un po’ dispiaciuta, ma voi resistereste alle lezioni di Keating?” “Nooo, certo che no, è troppo gasato, non dà tempo al tempo…”. “Allora è meglio essere noiosi?", incalzai. “Nooo, ma un po’ più lenti, e poi è vero, lei ha un po’ di ragione, noi con tutti i prof che si avvicendano del consiglio di classe rifiatiamo, ci permettiamo anche di imbrogliare e di fallire…”. “ Ma la poesia, serve a qualcosa?” “Sììì, a sognare, ma anche a riflettere, questo però lei proffa riesce a trasmettercelo…” “ E allora cos’è che è diverso nella scuola reale?” “È tutto più complesso, più difficile", e poi, aggiunse un ragazzo con aria maliziosa, "Carmina non dant panem… "
Era cominciata la Milano da bere.

Rosanna Angelelli, Roma


Fui severamente contraria

Quando uscì nelle sale il film L'attimo fuggente (1989) insegnavo in un triennio superiore sperimentale e mi sforzavo di rinnovare la mia didattica disciplinare  (letteratura e storia) con una creatività non improvvisata. Studiavo anche molto su testi teorici inerenti sia l'epistemologia delle mie discipline di insegnamento sia i più recenti studi pedagogico-didattici e la psicologia dell'età evolutiva.
Ero attenta anche agli aspetti istituzionali della scuola e con spirito critico seguivo l'andamento della politica scolastica grazie alla mia collaborazione con gli altri insegnanti come me nel Cidi. Due anni dopo avrei partecipato alla elaborazione dei programmi innovativi di letteratura nella Commissione del Progetto Brocca.
Queste mie esperienze e questo mio modo di esercitare la professione docente nei tempi moderni non potevano che predispormi ad essere severamente contraria al modello di insegnante suggerito dal protagonista di quel film, per i seguenti motivi:
1.l'insegnamento è una professione complessa, che ha bisogno di basarsi su competenze e autoriflessioni continue, anche e soprattutto quando sperimenta il nuovo ed una utile uscita dalla routine;
2. l'attimo fuggente, come indica il significato del titolo stesso, esalta un principio tipico dell'edonismo individualistico reaganiano (Reagan presidente USA dal 1981 proprio fino a quel 1989), qui rappresentato con toni accentuatamente emozionali, e non a caso in ambito scolastico, cioè educativo;
3. questo film ha  inaugurato una tendenza  di un certo cinema a usare come soggetto e contesto narrativo la scuola per parlare in realtà non dei problemi a essa inerenti, ma di altri temi della vita.

Isa Iori, Torino



In medio stat virtus

Ci sono cult movie generazionali che hanno lasciato una traccia significativa nel nostro immaginario. Per questo rivederli è un po’, per dirla con Calvino, come rileggere un classico che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. Rivedere oggi la figura del prof Keating, il protagonista del film “L’attimo fuggente”, nella trascinante e carismatica interpretazione di Robin Williams, non è stato soltanto un ripercorrere emotivamente esperienze di vita, nello specifico quella di un insegnante di discipline letterarie, ma anche uno stimolo a riprendere il filo di ragionamenti legati a temi che hanno coinvolto ampi settori della ricerca e appassionato quanti, alla fine degli anni Ottanta, erano a contatto quotidiano con adolescenti.
Understanding poetry, è il titolo del saggio da cui muove la lezione del prof Keating e “Che cos’è la poesia?” è una delle domande su ragionamenti che hanno segnato il dibattito sull’insegnamento della letteratura e sulla funzione della poesia anche nella scuola italiana. Una domanda che non presuppone una risposta univoca, e alla quale sono state date risposte molteplici e plurivoche, con esiti di grande vitalità per la scuola. Alla varietà di proposte è mancata però un’integrazione che, nel rispetto delle singole risposte, desse loro un senso organico e coerente. Come dire che alla ricchezza delle ipotesi, volte a produrre innovazioni profonde e significative, è mancata una cornice di riferimento che desse un senso di organicità al cambiamento.  ...  segue

Lina Grossi


1989

1989, il prof. Keating si intromette nella mia vicenda di insegnante ancora intenzionato a cambiare la scuola. Innegabile la suggestione provocata dal personaggio. Personaggio, appunto: tutti, spettatori e attori, dentro un film. Fuori dal cinema, la realtà; con il pensiero che corre (allora come oggi) alla scuola vissuta, anche lottando.
Metà degli anni settanta, primi anni di insegnamento in Barriera di Milano, quartiere complesso e complicato (allora come oggi): è l'incontro con Mara Pansini e con i colleghi del tempo pieno, che mi insegnano l'impegno culturale e pedagogico, la sperimentazione, la ricerca... perché è la didattica delle competenze che può cambiare la scuola nel segno dell’autonomia e della capacità critica degli studenti.
Poi metà degli anni ottanta, arrivo alla Don Milani di Venaria, situazione contraddittoria (allora come oggi): è l'incontro con Marina Terracina che, dirigendo la scuola, forma una generazione di giovani insegnanti, soprattutto del tempo pieno, all'impegno culturale e pedagogico, alla sperimentazione, alla ricerca… perché è la didattica delle competenze che può cambiare la scuola nel segno dell’autonomia e della capacità critica degli studenti.
L’esperienza di insegnante non avvicina alla figura del professore narciso, che trasforma gli studenti in seguaci. Dunque il pensiero corre al tempo in cui ero studente.
Anno scolastico 1969/70, Ginnasio-liceo Cavour, il liceo classico più conservatore e reazionario di Torino (oggi come allora, dicono in molti). Nel corso B insegna storia una giovane insegnante dai capelli rossi che, attraverso la sua disciplina, aiuta gli studenti a comprendere la realtà contemporanea formandoli alla cittadinanza consapevole e attiva. Deve lottare per affermare l’importanza dell’impegno culturale e pedagogico, della sperimentazione, della ricerca… perché è la didattica delle competenze che può cambiare la scuola nel segno dell’autonomia e della capacità critica degli studenti. Ma non ha mai strappato una pagina di un libro né è mai salita su un banco, nemmeno metaforicamente.
Si chiamava Gianna Di Caro e il Cidi e tutti noi le dobbiamo molto.

Ermanno Morello, Torino


"Capitano, mio capitano…"/1

Rivedendo le immagini del bel film L’attimo fuggente di Peter Weir, nell’interpretazione di Robin Williams, (chi non l’ha rivisto, dopo la drammatica scomparsa dell’attore?), si colgono delle suggestioni che, a distanza di tempo - il film è del 1989 - hanno il sapore di una pietanza ancora tutta da gustare, almeno per quanto riguarda le sperimentazioni o i tentativi di sperimentazione della didattica della letteratura nella nostra scuola.
Che il metodo proposto dal prof. Keating fosse coinvolgente e interessante per quei suoi allievi ingessati in un abito accademico imposto dalle regole precise del college, appare in tutta evidenza. E chi di noi ha avuto modo di vederne gli effetti sui propri alunni, nel momento in cui ne ha proposto la visione in classe, non può che convenire sull’efficacia del film, quantomeno nell’attirare l’attenzione dei giovani e nel mantenerla viva per tutta la sua durata.
Perché il prof. Keating incontra la simpatia, la stima e il successo da parte dei suoi allievi. Egli parla la loro stessa lingua, stacca la poesia dal piedistallo in cui l’hanno posta gli accademici paludati, e la mette a disposizione dei ragazzi cui si rivolge. In buona sostanza la de-mitizza, sottolineandone l’aspetto profondamente emotivo e sentimentale e facendone emergere la funzione umana. Nel senso che essa, la poesia, serve all’uomo non per raccontare ma per evocare e far condividere i moti dell’animo.
E, per assicurarsi che i suoi allievi comprendano bene, sempre lo stesso Keating, non usa l’analisi dei testi, ma la creatività.
Questo è quanto si evince dal film e questo è anche il messaggio che è arrivato ai nostri ragazzi.
È lo stesso messaggio che è arrivato anche a noi docenti, senza dubbio. E sono convinta che molti di noi ci hanno provato a emulare quel modello di didattica della letteratura. Non so con quale effettivo successo. Non l’ho potuto sapere, perché nella nostra scuola purtroppo non si parla e non si condivide la didattica nel merito, ma solo la programmazione e il bla bla bla didattichese.
Non c’è tempo, si dice, non c’è mai tempo, né nei consigli di classe, né nelle riunioni di dipartimento. Si parla sempre di “altro”, di cose più importanti e urgenti, di relazioni da scrivere, di materiali da consegnare, di moduli da compilare, di tutto tranne che dell’unica cosa importante: di come insegnare.
E così finisce che il docente sperimenti - quando lo fa - in completa solitudine. E succede anche che spesso non comprenda il perché del suo insuccesso e dell’inefficacia del suo metodo.
Rimane il fatto che la realtà d’aula è molto più complicata rispetto a quella assai suggestiva del film. C’è una parte che il film, per ovvie ragioni, non ci fa vedere: come procede il prof Keating dopo che ha invitato i suoi allievi a esprimere i propri stati d’animo sulla scorta dei modelli poetici proposti? Con quale rigore metodologico riesce a far comprendere come la costruzione poetica è molto di più che una esplicitazione spontanea di stati d’animo e di sentimenti? Con quali mezzi didattici riesce a far comprendere ai suoi allievi che la poesia per dirsi tale deve acquisire la caratteristica dell’universalità, sola condizione attraverso la quale i messaggi possono interessare ognuno di noi? E quali sono i mezzi linguistici e retorici perché ciò avvenga? Questo è il compito duro del docente di letteratura nel momento in cui deve far comprendere agli allievi che, nella costruzione poetica, alla creatività deve necessariamente accompagnarsi il concetto di rigore.
È a questo punto che il docente si misura con la sua stessa competenza didattica: far sì che gli studenti apprendano a coniugare le emozioni e la spontaneità con le rigorose riflessioni sulla tecnica della poesia.
Perché non basta che un ragazzo dica: “È bello, mi piace “, ma deve anche potersi chiedere: “Posso farlo anch’io?” e imparare a darsi delle risposte rispetto a ciò che può o che non può fare e spiegarsene il perché. Obiettivo tosto, ma tuttavia necessario, attraverso il quale passa un’educazione linguistica e letteraria di qualità.

Maria Rosa Giannalia, Cagliari


 

"Capitano, mio capitano…"/2

Chi può negare che il Professor Keating rappresentasse nei giorni in cui fu proiettato il film L'attimo fuggente  ( 1989) uno dei primi esempi di didattica  della sperimentazione e didattica per competenze?
Keating sperimentava lezioni completamente al di fuori delle vecchie lezioni frontali, in piedi sulla cattedra o fuori al cortile, e permetteva ai suoi allievi di agire la poesia pur se all’interno di strane location quali la setta dei poeti estinti.
Rivoluzionario per quegli anni e, per alcuni versi, un indubbio maestro per alcuni di noi, giovani professori che proprio in quegli anni cominciavamo ad insegnare.
Vari sono stati  gli spunti che posso dire di aver colto all’interno del film relativamente all’insegnamento delle mie  discipline (le Discipline Giuridiche).
Cominciando dalla pluralità dei punti di vista con cui il professore invitava i suoi allievi a guardare il mondo che li circondava: per ciò che mi riguarda il Diritto , le Norme Giuridiche, la loro forza cogente e  allo stesso tempo la loro relatività, il loro non essere assolute come tutti gli oggetti delle  scienze sociali create dalla mano dell’uomo nei tempi e negli spazi più svariati.
Importante ai miei occhi nell’insegnamento del Professor  Keating era il ricorso alla strategia dell’empowerment, del potenziamento; è con questa strategia che riesce a tirar fuori dalla bocca del timido Todd Anderson versi delicati e sublimi.  
E che dire della capacità che mostrava nell’incitare i suoi allievi a guardare dentro di loro per capire davvero i loro bisogni o le loro aspirazioni (Counseling scolastico). Bisogno di conquistare la più bella ragazza del college o di scegliere di diventare un grande attore di teatro. Bisogni da perseguire fino in fondo anche se questo poteva  significare a volte il contrasto e  l’opposizione all’interno di quel sistema che li conteneva.
Non c’è dubbio che  diverse sono state le reazioni dei ragazzi a questa spinta interiore che da lui partiva, così come erano diverse le anime di quei ragazzi. Il rivoluzionario Charlie Dalton ad esempio, il poeta più spassionato, colui che pur di contestare il sistema si fa cacciare al di fuori di esso con la leggendaria frase “C’è Dio al telefono!”. O l’accomodante, politicamente corretto, studente dai capelli rossi che spinge i suoi compagni a denunciare il professore dicendo che “è la sua testa che  vogliono, tanto vale non mettervi nei guai!”. O ancora l’eroismo suicida di Neil Perry che porta alle estreme, tragiche, conseguenze le spinte provenienti dal suo mentore.
Ma c’è un ragazzo, uno di loro che alla fine mostrerà più di tutti di aver compreso i suoi insegnamenti  e di aver conseguentemente  sviluppato competenze di vera cittadinanza: è sempre Todd, Todd Anderson che non tradirà, pur se sotto ricatto, il professore, sapendo che ne pagherà le conseguenze  e che in ultimo sarà quello che per primo salirà sui banchi a salutare il suo capitano o mio capitano!

Mariella Ficocelli, Pescara