Qualcosa di più di un "editoriale" *
Tra i molti concetti abusati in questi giorni, quelli destinati a diventare slogan privi di senso e a essere consumati prima di concretizzasi in qualche fatto compiuto davvero capace di trasformazione positiva, c’è probabilmente il “cambio di paradigma”, reclamato o auspicato da molti non solo come strategia per affrontare l’emergenza, ma come criterio guida per uscire dalla crisi con un rinnovamento radicale che consenta di “uscirne migliori”. Altra metafora, più militaresca questa, in omaggio forse al fatto di aver affidato il piano di emergenza per garantire la salute pubblica alle Forze armate (da tempo per altro assimilabili a “Forze di pace”) è il “cambio di passo”. Oltre che un bell’esempio, questo sì, di “cambio di paradigma”.
Per cambio di paradigma possiamo infatti intendere il cambiamento delle regole, delle prospettive e delle finalità, da cui discendono scelte conseguenti e che si configura quindi come un insieme di principi e di pratiche, che alimentano e governano le scelte di natura politica, sociale, economica, in un determinato settore della vita pubblica e privata o nel suo insieme. La scuola è certamente uno di questi.
Non resta che chiedersi e capire, allora, quali siano i nuovi scenari e i nuovi orizzonti verso cui ci apprestiamo a marciare. E chiedersi, ancor prima, se i provvedimenti finora adottati, in questa lunga ed estenuante emergenza, e quelli che ci si appresta a sostenere anche finanziariamente per il futuro, stanno delineando o meno un “cambio di paradigma”. E, appunto, in che direzione.
Provo a elencare alcune impressioni che si poggiano su dati di fatto e su argomentazioni che abbiamo svolto in questi mesi sulla rivista e che continueremo a sviluppare. Per semplificare un discorso certamente complesso, lo faccio attorno ad alcune antitesi guida, ben sapendo che come tutte le antitesi potrebbero dar luogo a opposizioni insanabili, oppure - e sarebbe più opportuno - a sintesi di profilo più alto.
Emergenza/ Occasione di cambiamento.
Fin dal primo apparire dei guasti provocati dalla pandemia abbiamo assistito al pericoloso tentativo di presentare e attuare le soluzioni di emergenza come occasioni di cambiamento. Ne è esempio paradigmatico (appunto) la sedicente “DAD”, presentata fin dal marzo scorso dal Ministero e da alcuni settori del sistema scolastico come occasione di cambiamento e innovazione. O, al meno peggio, come terreno di sacrificio e tenuta di un corpo docente via via più stremato, al pari degli allievi, nel tentativo di mantenere viva qualche forma di relazione educativa e umana. Come sia andata a finire è sotto gli occhi di tutti. Infatti non c’è ora intervento sulle possibilità di usare modalità di comunicazione formativa a distanza su supporti digitali che non sia corredato dalla elencazione dei limiti, dei rischi, delle conseguenze nefaste. Senza che per altro, a proposito di “cambiamento di paradigma”, si sia fatto nulla per contrastare la sudditanza spesso acritica verso le piattaforme a intenzione capitalistica (si potrebbe dire secondo paradigma liberista) e le imprese dello sfruttamento dei dati, del monopolio dell’informazione e della sorveglianza delle identità, delle scelte, degli spostamenti sul territorio. È il primo e più macroscopico esempio di adattamento a principi, regole e procedure relative all’istruzione proposte e governate da soggetti privati deregolamentati ed esentasse, ovvero che agiscono fuori dalle regole e dai controlli della cosa pubblica, ovvero della res publica, anzi che si alimentano dello sfruttamento senza limiti di aspetti costitutivi dell’identità individuale e sociale.
Questo sì, rischia di essere il tassello di un pericoloso cambio di paradigma.
Azione/ Innovazione
Lo stesso concetto di cambiamento, qui evocato, è stato oggetto, negli ultimi decenni, di un progressivo logoramento e di un cambio di prospettiva, fino a essere sostituito da quello di “innovazione”, di cui si è fatto spesso abuso, soprattutto per indicare delle trasformazioni che traevano origine e ispirazione dalla necessità, giudicata di fatto ineluttabile, di introdurre nel sistema scolastico strumenti e metodi desunti dai processi di innovazione tecnologica, di digitalizzazione, spesso di disumanizzazione delle relazioni interpersonali e delle stesse procedure cognitive, a tutto vantaggio delle regole implicite, nelle modalità di funzionamento e nelle grammatiche costitutive, di quegli stessi strumenti di cui si minimizzano o si tendono a ignorare o anche a rigettare acriticamente, in una visione sostanzialmente tecnocratica, le implicazioni di natura politica, i presupposti ideologici, i condizionamenti comportamentali e cognitivi.
Questi mesi, da questo punto di vista, sono stati devastanti: si è persa una occasione, fertile proprio perché tragica, di rapportarsi in modo politicamente e culturalmente critico con le tecnologie della comunicazione e dell’informazione e - troppo spesso - si è trasformata la necessità di farne uso per fronteggiare i disagi dell’emergenza in un progressivo asservimento o quanto meno adattamento acritico.
Qui non c’è stato e non si profila nessun cambio di paradigma, ma il permanere della sterile contrapposizione fra esegeti e iconoclasti, che caratterizza il dibattito fin dalla loro comparsa, mentre prosperano però i profitti economici e le ingerenze di chi li produce, li veicola e ne tira le fila. E soprattutto senza che il rinnovamento necessario delle infrastrutture della conoscenza e dell’istruzione vengano orientate a effettive finalità di sviluppo umano e di progresso sociale, che davvero rappresenterebbero l’assunzione di un diverso paradigma. C’è stato invece, a questo proposito, un cambio di passo, perché l’accelerazione di questa direzione del processo e la convinzione della sua ineluttabilità sono in questo caso evidenti e talmente forti da apparire inarrestabili.
Istruzione /Educazione
Ad alimentare dibattiti, ma soprattutto prospettive e scelte che riguardano il settore scolastico e il suo rapporto con la società nel suo insieme, è sicuramente in atto una ridefinizione, talvolta palese ma più spesso strisciante, di questa coppia così antica, delicata e complessa. Non si tratta certo di un fenomeno recente, anzi sarebbe giusto affermare che gli equilibri (e gli squilibri) di questa coppia di concetti sono fra loro in stato dinamico di perenne oscillazione e riassestamento nella storia dell’apprendimento umano. E la sensazione che abbiamo in parecchi è che, a proposito di cambiamento di paradigma, il PNRR per uscire dalla crisi e realizzare una nuova idea di scuola, sancisca e soprattutto si appresti a sostenere economicamente la direzione verso cui sono andate più o meno recentemente molte scelte istituzionali. Qui ne è esempio paradigmatico la legge che ha ripristinato la “educazione civica”, sulla base di un pasticcio epistemologico e organizzativo al confine fra ingenuità e malafede. Ma ne sono testimonianza anche le iniziative (alcune certamente lodevoli ed efficaci) che vedono impegnati “educatori” anziché “insegnanti”, il terzo settore anziché il pubblico impiego, le fondazioni anziché l’ istituzione, in un insieme di azioni che sono talvolta di supporto complementare, altre volte sono o rischiano di essere di sottrazione di risorse e competenze, troppo spesso anche di delega e deresponsabilizzazione da parte della scuola stessa.
Ma anche guardando un poco più indietro nel tempo si scoprono segnali interessanti e non del tutto confortanti. Se per esempio si rilegge oggi, col senno di poi, il profilo di uscita dalla scuola di base, scritto a ricalco delle “otto competenze chiave di cittadinanza” di origine comunitaria, si scopre quanto la dimensione educativa, identitaria, comportamentale prenda il sopravvento quantitativo e qualitativo su quella relativa all’istruzione e alla crescita delle competenze culturali, coniugando il concetto di competenza oltre i confini dell’aula. O se si vuole in altri termini, si scopre quanto i frutti dell’educazione non formale prendano il sopravvento su quelli formali, rischiando di offuscare il compito primario dei processi di insegnamento/ apprendimento.
Da questo punto di vista andrebbe riletta con estrema attenzione tutta la normativa prodotta e le scelte strutturali compiute dopo l’approvazione dell’autonomia, per comprendere quanto è stato fatto per sostenere l’autonomia di “ricerca, sperimentazione e sviluppo” e quanto è invece andato nella direzione di una competitività fra scuole e una crescita delle forme di valutazione deterrente, spesso eterodirette.
Nella certificazione del “profilo di uscita”, si rischia di smentire e tradire l’affermazione portante delle stesse “Indicazioni nazionali”, che quelle competenze vanno acquisite con “il contributo di tutte le discipline”, ovvero dell’intero progetto culturale della scuola.
Dentro/Fuori
I mesi della seconda fase di emergenza pandemica sono stati caratterizzati da quest’altra coppia di cognizioni antitetiche: dentro o fuori la scuola? Quali spazi, quali strutture, quali soggetti, quali ambienti vanno utilizzati o è possibile utilizzare? Si è parlato di "scuola aperta", di "scuola diffusa".
La dialettica dentro/fuori coinvolge un altro terreno di estrema delicatezza ed è il rapporto con la realtà territoriale in cui la scuola è inserita: che la scuola debba agire con profonde interazioni con la realtà territoriale è indubbio ed è stato a lungo oggetto di riflessione, di sperimentazioni e di crescita democratica del sistema scolastico fin dagli albori degli anni Settanta del secolo scorso. Il rapporto fra scuola e comunità territoriale educante non è certo invenzione recente, ma va vissuta e interpretata nel rispetto dei soggetti che la mettono in atto, e delle loro peculiarità, ma anche con la salvaguardia dell’ autonomia della scuola e della responsabilità sociale del suo progetto culturale e formativo, che ha il compito di controbilanciare le stesse istanze familistiche, locali, particolari, privatistiche con cui interagisce.
Il territorio circostante, e quindi il tessuto politico, culturale, sociale e produttivo in cui la scuola è inserita, non è garanzia di democrazia, di pulsione egualitaria, di difesa dei diritti, di emancipazione per il fatto stesso di essere limitrofo, così come non lo è per definizione la scuola, che non sempre sa essere interprete e garante di quei diritti e della rimozione degli ostacoli verso la loro salvaguardia che la Costituzione le affida.
Stare dalla parte dei diritti e della lotta alle sperequazioni, per la scuola pubblica, non è solo frutto di scelte di campo: è un obbligo istituzionale, ma a poco a poco ce ne stiamo dimenticando o lo stiamo delegando ad altri. Il rapporto fra scuola e collettività e la valorizzazione delle potenzialità di progresso sociale che possono derivarne costituiscono un terreno molto delicato di interazione e di scambio, nei cui confronti è sempre doveroso chiedersi quale sia la fonte di legittimazione dei principi e delle prospettive che determinano i processi e le scelte che si compiono.
Qui ad essere paradigmatico, da ultimo, è il Piano per gli interventi da attuare nell’estate del 2021, che introduce una profonda ridefinizione dei soggetti e degli ambiti coinvolti o coinvolgibili nei progetti educativi, o della natura stessa delle azioni praticate, che sono spesso assai diverse dall’essere scuola, anche se alcuni di questi sono attuati con la pretesa di “recuperare” gli apprendimenti inevasi durante la pandemia. Si tratta di interventi culturali, sportivi, anche istruttivi o evasivi in senso intelligente, talvolta lodevoli sul piano delle istanze etiche e valoriali che li animano, ma che sono altra cosa rispetto alla progettazione e all’attuazione di coerenti ed efficaci processi di insegnamento/apprendimento.
Ma ciò che è ancor peggio, quel Piano, oltretutto realizzato con strumenti normativi e confini istituzionali molto “emergenziali”, introduce uno stravolgimento totale del diritto-dovere su cui si fonda il contratto formativo in capo alla scuola della Repubblica, che viene sostituito da opzioni volontarie, sia da parte di chi eroga che da parte di chi fruisce di quello che non è più così un diritto, ma al più un servizio, ormai più assistenziale che istituzionale e per giunta a domanda individuale. Indubbiamente nasce un conflitto in cui entrano pure lo stato giuridico dei docenti e il contratto di lavoro della categoria, anche se non sarebbero questi, in queste circostanze, dei temi dirimenti, se solo si mantenesse inalterato il quadro complessivo (il paradigma?) di riferimento istituzionale e costituzionale.
La necessità, che appare ormai a molti inevitabile, di ampliare lo spettro dei soggetti e dei contesti che concorrono alla formazione del cittadino impone comunque di porre molta attenzione alle istanze, ai bisogni e soprattutto agli interessi reali di chi se ne occupa.
Diritto / Assistenza
Da questo punto di vista, il cambiamento di paradigma appare consistente: la progressiva deriva dalla natura e dalla prospettiva istituzionale, anzi del mandato Costituzionale, che considera e interpreta la scuola pubblica e l’istruzione come un diritto-dovere fondamentale per l’esistenza e la tenuta stessa della democrazia, a una natura e prospettive più assistenziali, che considerano l’assenza di istruzione come una carenza, una condizione di minorità che va compensata con interventi di restituzione, incremento, attenzione, sussistenza. Questo sì, sarebbe un cambiamento di paradigma essenziale, e, secondo noi, devastante.
Che in capo a questo insieme di provvedimenti ci sia l’azione delle Fondazioni non è certo casuale. Anche senza giungere qui alla gravità delle incongruenze e delle ingerenze che pure altrove si realizzano, non si possono ignorare la nascita, la storia, l’agire di questa costola benefica dell’azione capitalistica, che spesso agisce fuori da strumenti e procedure di controllo, se non autoreferenti, non raramente con il supporto di cofinanziamenti pubblici e certamente con i vantaggi della detassazione.
Si tratta nel complesso di flussi di denaro sottratti al finanziamento della cosa pubblica a vantaggio di azioni che ne intendono contrastare le carenze e le inefficienze, carenze e inefficienze che quella sottrazione di risorse non fa che alimentare.
A questo proposito, però, il sistema scolastico deve avere nel suo complesso l’onestà intellettuale e il coraggio politico di ammettere il proprio fallimento, almeno parziale: nonostante i successi ottenuti nell’ultimo quarto del secolo scorso, da almeno vent’anni la scuola italiana non riesce più a essere tutela e motore del diritto al riscatto culturale e sociale di tutti e di ciascuno e in concreto della effettiva crescita culturale di una quota troppo ampia di popolazione scolastica. I dati sulla dispersione scolastica, le quote di emarginazione dallo studio e dal lavoro, gli stessi esiti conseguiti nelle indagini nazionali e internazionali, al di là della loro effettiva attendibilità specifica, stanno a testimoniare risultati non soddisfacenti nella difesa e garanzia di questo diritto-dovere.
La strada all’assistenzialismo è stata aperta dal parziale fallimento del progetto di perequazione istituzionale dei dislivelli di apprendimento fra le persone, i gruppi sociali, i territori del paese.
D’altro canto è innegabile che la deriva verso l'assistenzialismo e la scuola concepita più come servizio che come diritto siano frutto anche di gravi scelte politiche che hanno fortemente penalizzato il mondo della scuola, depauperandola di risorse economiche e umane. Spesso si evoca l’intervento di soggetti e ambienti esterni proprio a colmare le lacune e le carenze che la contrazione del tempo scuola ha provocato. E non a caso, anche ora, nelle priorità per uscire dalla crisi, altre voci di spesa appaiono più urgenti della ristrutturazione edilizia, della riqualificazione degli ambienti, della necessità di investire per aumentare il tempo scuola e ridurre il numero di allievi per classe. Spesso, anziché pensare a come rendere funzionale l’ambiente formativo, si preferisce pensare a come uscirne.
Emancipazione/Adattamento
Anche a proposito di questa coppia, che è poi quella cui devono guardare la politica scolastica e la progettazione educativa, ci sembra che effettivamente un cambio di paradigma stia avvenendo e purtroppo nella direzione di una totale esaltazione del secondo corno dell’antitesi.
La scuola che abbiamo visto in atto durante la pandemia, ma che si profila anche per i mesi a venire, al di là delle reiterate affermazioni di voler contrastare le disuguaglianze preesistenti e che l’emergenza pandemica ha accentuato, è una scuola che sembra abbandonare del tutto le finalità dell’emancipazione individuale e sociale, collettiva (un tempo si diceva del riscatto delle persone e delle classi sociali deprivate) a vantaggio di un adattamento individuale alle regole della competizione meritocratica in un contesto occupazionale sempre più arduo. Una scuola funzionale allo sviluppo economico più che a quello umano e sociale, su base individuale (nel migliore dei casi l’imprenditore di se stesso, nel peggiore il suddito delle istanze della globalizzazione finanziaria e ultramonopolistica che governa i flussi finanziari e i processi produttivi) e non certo sociale.
Quella che ci appare sempre più lontana e sarebbe invece il frutto di un effettivo cambiamento di paradigma “per renderci migliori” sarebbe una scuola come luogo di educazione alla cittadinanza e di costruzione della democrazia, dove ciascuno fosse chiamato, in gara solo con se stesso e non con gli altri, a dare il meglio di sé, in spirito di collaborazione non competitiva, per la difesa e la valorizzazione del benessere individuale e collettivo come bene comune. Dove il merito individuale sia riconosciuto e incentivato come responsabilità da condividere e non come credito da riscuotere. Dove la valutazione premiale o punitiva sia sostituita dalla negoziazione dei fini, dalla concertazione costruttiva delle modalità per raggiungerli e dalla valutazione condivisa degli esiti raggiunti. Dove il fine del sistema scolastico è l’emancipazione individuale e sociale e non l’adattamento alla libera competizione senza regole o, al più, la partecipazione alle azioni di sussistenza assistenziale e compensativa.
Curricolare / extracurricolare
In alcune scelte programmatiche come nel dibattito ricorrente, che fortemente condizionano le pratiche didattiche quotidiane, tutti questi ragionamenti apparentemente astratti hanno ricadute e risvolti assai concreti in quest’altra coppia che ha dominato il dibattito sulla scuola negli ultimi decenni.
Anche in questo caso è paradigmatico come ogni discorso che indichi o promuova un qualche cambiamento positivo della scuola prenda spunto dalla confutazione della dimensione curricolare, verso l’extrascuola, l’extracurricolare, i progetti, le attività complementari o sostitutive.
Complice anche una scuola ostinatamente “trasmissiva”, soprattutto nella scuola secondaria di II grado, ma non solo, curricolare è diventato sinonimo di stantio, demotivante, selettivo. Ne è nata un’altra antitesi falsa quanto devastante: quella fra disciplinare e trasversale. Ma qui si aprono altri ambiti di ragionamento, certamente più aderenti al fare scuola quotidiano e che andrebbero vagliati attentamente. Cosa per altro che non ci stanchiamo di fare, su questa rivista, da molto tempo. Ma resta la sensazione che il farlo, senza affrontare e risolvere le altre questioni prima enunciate, costringerebbe l’analisi e la ricerca di soluzioni in un ambito di ragionamento e di proposte alla fine sterile e ininfluente.
Di fatto una didattica cooperativa, inclusiva, co-costruttivista , emancipante, progressista può anche nascere, ma difficilmente si radica e si diffonde in un contesto in cui il paradigma di riferimento le sia di fatto ostile o comunque altro. E la scuola non ha ancora saputo far propria e consolidare quella visione emancipante cui prima si faceva riferimento.
Ne è testimonianza l’infelice esito del dibattito e delle pratiche attorno all’altra falsa contrapposizione fra conoscenze e competenze, che anziché favorire un reale rinnovamento delle pratiche didattiche disciplinari nella direzione dell’emancipazione e del pensiero critico operativo, ha finito col contrapporre una difesa spesso anacronistica delle conoscenze all’affermarsi, alla fine vincente, di una visione delle competenze tutta aziendalista, competitiva o adattiva all’esistente.
E quindi…
In sostanza a noi pare che se un cambio di paradigma è in atto, lo si possa concretizzare in una transizione dalla scuola governata dai principi e dalle scelte che ne hanno fatto (in Italia per almeno metà secolo) un diritto inalienabile garantito dallo stato, anzi dalla Repubblica, quella che intende rimuovere gli ostacoli di cui parla l’art 3 della Costituzione verso un misto fra assistenzialismo compensativo e adeguamento/adattamento agli interessi di “stakeholder” privati. Da tempo, del resto, è in atto una revisione della dimensione “pubblica” e del ruolo delle istituzioni democratiche nelle dinamiche sociali.
Nella dialettica fra salvaguardia di un diritto-dovere costituzionale e terreno di assistenzialismo e adattamento all’esistente, si sarebbe dovuta affermare una nuova concezione del diritto all’istruzione e all’emancipazione culturale e sociale come bene comune, estranea alla logica degli interessi di parte o del servizio a domanda individuale. Ma questa prospettiva di sintesi stenta ad affermarsi perché ciascuno continua a declinare come privato o privatizzabile ciò che dovrebbe essere comune.
E la scuola ha finito col vedersi sottratti o esautorati o ha scelto di affidare in delega ad altri aspetti e compiti costitutivi del suo mandato costituzionale: il contenimento e l’azzeramento della dispersione scolastica, il contrasto alle disuguaglianze educative, ora anche la componente etico valoriale in senso civile e democratico del progetto di istruzione pubblica. Si rischia così di affidare totalmente la parte più delicata delle finalità educative della Repubblica, non solo ad enti che, spesso in buona fede e con buoni risultati, si muovono sul terreno della lotta alle disuguaglianze, del risarcimento di disequilibri sociali, dell’incremento delle occasioni e delle opportunità di riscatto ed emancipazione, quali sono molti soggetti che alimentano le fila del “terzo settore”, ma anche con l’affidare la regia di questi progetti a derivazioni deregolamentate ed esentasse del sistema economico e sociale.
Anche qui c’è qualcosa di paradigmatico in questo processo. Ed è il paradosso di affidare il contrasto alla povertà educativa o il progresso delle strumentazioni individuali e collettive a soggetti privati che sono protagonisti o espressioni derivate di quello stesso sistema economico che produce le povertà sostanziali e che si alimentano dell' ideologia del merito, della competitività e della concorrenza. Anche se agiscono fuori dagli stessi regimi di concorrenza e anche quando si muovono con tutt’altre finalità e intenzioni. Del resto rischia di essere improduttivo agire per fornire sostegno e occasioni di riscatto a chi subisce le conseguenze della povertà e delle disuguaglianze educative, senza per altro agire perché cambino le condizioni che alimentano quelle di fatto.
Resta difficile vincere la sensazione che la sostanza ultima di ciò che sta avvenendo sia una sorta di privatizzazione dell’istruzione come bene comune e alimento di progresso sociale, che ha le sue radici nel parziale fallimento della scuola pubblica e ora produce una trasformazione del diritto allo studio in assistenzialismo per le zone economicamente più depresse e adattamento acritico al sistema economico per quelle trainanti. Se è questo il senso del cambiamento di paradigma, allora è per questo che molti dei provvedimenti che si prendono da decenni non corrispondono alla nostra idea di scuola.
Negli ultimi vent’anni un uso degenerativo dell’autonomia finalizzato ad esaltare l’autonomia della competizione in luogo di quella delle responsabilità, un sistema scolastico governato dall’assillo patologico della valutazione anziché dalla ricerca-azione sui terreni della progettazione educativa e della efficacia delle attività didattiche, una sistematica sottrazione di risorse hanno fatto arrestare l’evoluzione del sistema scolastico del nostro paese. E ora si cerca per altre strade e con altre istanze la necessità di porvi rimedio.
Se è questo il senso di ciò che sta accadendo non è un cambio di paradigma, perché questo è il disegno che governi di segno opposto perseguono - seppure con oscillazioni del pendolo - da almeno vent’anni. Se il dolore e le problematiche imposte dall'emergenza dovevano generare un cambio di paradigma per uscirne migliori, questo dovrebbe concretizzarsi infatti nella negazione delle regole, dei presupposti e dei fini del neoliberismo, anche in campo educativo e scolastico, ovvero con la presa d’atto del suo fallimento e attraverso il recupero di ciò che si è trascurato per decenni: la responsabilità individuale e collettiva nei confronti della tutela dei diritti e dell’emancipazione individuale e sociale, attraverso la salvaguardia e la promozione di questo sistema da parte delle istituzioni pubbliche, su basi democratiche e di garanzie costituzionali e non economicistiche.
Non ci sembra che sia ciò che sta accadendo, nell'istruzione come nella difesa della salute, come nel contrasto alla distruzione del pianeta, del controllo consapevole delle tecnologie della comunicazione o, di certo, nelle modalità di distribuzione della ricchezza. La logica del profitto detassato e sostenuto dal denaro pubblico, non solo non viene messa in discussione ma spesso affida a suoi protagonisti (le multinazionali dello sfruttamento dei dati) o a suoi derivati (le fondazioni bancarie e aziendali) il compito di rimuovere o lenire i suoi effetti peggiori.
Ci sembra il più antico dei paradigma che governano il mondo. Se mai registriamo, questo sì, un cambio di passo. La sensazione è quella di una accelerazione dei processi in atto, anche quando si proclama di voler porre rimedio alle distorsioni e alle falle più evidenti, e magari in buona fede si agisce in tal senso, senza però avere la volontà o la possibilità o la visione per cambiare i presupposti di cui si alimenta il sistema che li genera.
Quello che sembra mancare sono il target sociale e il sostegno politico di riferimento per far sì che il sistema scolastico e il Paese compiano davvero quel cambiamento di paradigma di cui ci sarebbe bisogno. E non solo per la scuola.
* In quanto e più di un editoriale, questo testo è un tentativo di sistematizzare e dar voce a una serie di considerazioni, di analisi, di ipotesi interpretative svolte con persone diverse, cui va il mio ringraziamento, in questo lungo ed estenuante periodo di emergenza pandemica e di sofferenza individuale e sociale. In tal senso, almeno in parte, è anche il frutto di un pensiero collettivo e come tale si propone alla discussione.
Per essere un editoriale - e per giunta di una rivista on line- è un testo lungo e faticoso da leggere, e di questo mi scuso, anche se conto di realizzarne una versione supportata dai riferimenti ad altri testi e circostanze di fatto, qui omessi per non appesantire ulteriormente il discorso.