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di Bruno Lositovalutare per capire

01/03/2017

I "voti Invalsi"

Tra i  decreti legislativi attuativi della Legge 107 del 2015, quello che stabilisce le nuove regole in materia di valutazione e di certificazione delle competenze contiene alcune significative novità. La più importante, a mio parere, è quella relativa all’uso degli esiti delle rilevazioni nazionali condotte dall’Invalsi, che verranno utilizzati per la valutazione dei livelli di apprendimento degli studenti. Si compie, quindi, per decreto il definitivo passaggio dall’uso delle rilevazioni in funzione della valutazione di sistema e del sostegno all’autovalutazione delle scuole al loro uso per la valutazione degli studenti, dei singoli studenti.
Proviamo a chiarire il quadro che emerge dallo schema di decreto, nella sua stesura attuale.

In primo luogo, i voti in decimi continueranno a venire usati per la “valutazione periodica e finale degli apprendimenti degli alunni del primo ciclo, ivi compresa la valutazione dell’esame di Stato” (art. 2). Questo vale anche per la scuola primaria,  nonostante quanto prospettato nei mesi scorsi.
Le prove Invalsi non saranno più inserite all’interno dell’esame di Stato al termine del primo ciclo. Esse continueranno a essere svolte nelle classi già oggi interessate dalle rilevazioni. Alle aree già oggetto di indagine – italiano e matematica – si aggiunge l’inglese. Nella scuola primaria la prova di inglese verrà somministrata solo nella quinta classe.
La partecipazione alle rilevazioni Invalsi costituisce “requisito di ammissione all’esame conclusivo del primo ciclo di istruzione” (art. 7), sia per gli studenti interni, sia per i candidati privatisti.
La valutazione finale dell’esame di Stato, che si articola in tre prove scritte – prova di italiano, prova “relativa alle competenze logico matematiche”,  prova “relativa alle competenze in lingue straniere” –  e un colloquio orale, viene espressa in decimi.
Al termine della scuola primaria e del primo ciclo di istruzione viene rilasciata agli studenti una attestazione che “reca l'indicazione dell'esito delle prove a carattere nazionale… distintamente per ciascuna disciplina oggetto della rilevazione” (art. 10). Nella attestazione sono anche riportati i livelli di competenza raggiunti dagli studenti, con giudizi formulati sulla base di modelli nazionali “emanati con decreto del Ministro dell'istruzione università e ricerca” (art. 10).

Per quanto riguarda la scuola secondaria di II grado la proposta è analoga. La partecipazione alle  rilevazioni Invalsi costituisce, anche in questo caso, un prerequisito per essere ammessi all’esame di Stato. Per l’ammissione è necessaria una media non inferiore ai sei decimi, includendo nel calcolo il voto di comportamento. Al fine di “uniformare  i criteri di valutazione delle commissioni d'esame” verranno definite – sempre dal Miur – le griglie di valutazione per l'attribuzione dei punteggi previsti, che dovranno consentire di “rilevare le conoscenze e le abilità acquisite dai candidati e le competenze nell'impiego dei contenuti disciplinari” (art. 15).
Gli studenti della scuola secondaria di II grado riceveranno un diploma, al quale verrà allegato un curricolo in cui si farà menzione esplicita – in una apposita sezione – dei risultati conseguiti nelle rilevazioni Invalsi in italiano, matematica e inglese, analiticamente, prova per prova (art. 23). A questi risultati potranno fare riferimento le Università per l’accesso ai percorsi di studio accademici (art. 21).

Mi sembra che gli aspetti critici di quanto previsto dallo schema di decreto siano molteplici.
Nella scuola primaria, a parte la rinuncia a rimettere in discussione l’espressione in decimi dei giudizi valutativi, si prospetta una situazione che prevede per gli studenti tre diversi giudizi: la valutazione in decimi, la certificazione delle competenze, il risultato nelle prove Invalsi. Nel corso della cosiddetta “sperimentazione” dei modelli di certificazione delle competenze si è più volte posto in evidenza il rischio di una “doppia pagella”, che – in mancanza di criteri valutativi sufficientemente definiti e condivisi – non avrebbe potuto che essere fonte di confusione. Ora il rischio è quello di una “tripla pagella”, con la quasi certezza di confusioni e ambiguità che ne deriveranno. Inoltre, ad oggi, non si conoscono quali siano gli orientamenti sulla revisione dei modelli di certificazione delle competenze che è stato chiesto alle scuole di “sperimentare”. Molte perplessità erano state formulate nei loro confronti, primo fra tutti quello di adottare una concezione rigida di competenza, che non consente di distinguere tra le sue diverse componenti  e di forzare il giudizio – ancora una volta – verso la formulazione di una “media” del tutto arbitraria tra diversi livelli di prestazione riferibili a una stessa competenza. Un esempio per tutti: la competenza in madre lingua comprende diversi aspetti, nei quali gli studenti – come tutti noi – possono legittimamente presentare livelli diversi (si pensi, anche a rischio di semplificazioni, alla distinzione tra parlato e scritto). Il modello di certificazione proposto dal Miur non consente queste differenziazioni, per altro previste da altri modelli di certificazione delle competenze linguistiche ormai consolidati a livello europeo.

Ma, soprattutto, il confronto tra valutazione degli esiti dell’esame di Stato formulati dai Consigli di classe e punteggi conseguiti nelle prove Invalsi rischia di minare la credibilità dei giudizi valutativi espressi dalle scuole. E non perché le scuole siano più “buone” o per un diffuso “lassismo valutativo” (pure in parte esistente e da non sottovalutare). Ma perché, in mancanza di standard di riferimento comuni e condivisi, è inevitabile che i giudizi valutativi espressi dalle scuole tengano conto dei contesti scolastici specifici all’interno dei quali gli studenti studiano, delle variabili di contesto socio-culturale da cui gli studenti provengono.
Sappiamo, fin dalle prime indagini comparative internazionali dei primi anni Settanta del secolo scorso, che il nostro sistema di istruzione è caratterizzato da divari profondi, che spesso riproducono le differenze di carattere socio-economico e culturale storicamente presenti nel nostro Paese. La scelta di utilizzare gli esiti delle prove nazionali Invalsi in modo decontestualizzato finisce per attribuire agli studenti la responsabilità di tali divari, rischiando di cristallizzare le differenze, invece di contrastarle.

Discorso analogo può essere fatto per la scuola secondaria di II grado. In un colpo solo, viene stabilità l’obbligatorietà di fatto della partecipazione alle prove Invalsi, scegliendo l’imposizione dall’alto anziché il confronto, e si attribuisce valore di misura agli esiti delle prove Invalsi. Anche in questo caso indipendentemente da tutte le variabili di contesto che concorrono a determinare i risultati conseguiti dagli studenti. Operando questa scelta, al di là di ogni giustificazione retorica,  si decide di fatto di dimenticare quanto decenni di ricerca valutativa e di rilevazioni internazionali e nazionali dovrebbero averci insegnato.
Per la scuola secondaria di II grado, credo non sfugga a nessuno quali possano essere le conseguenze di una utilizzazione dei punteggi Invalsi da parte delle Università per regolamentare gli accessi ai corsi di studio. Insomma, si risolve nel peggiore dei modi il problema – reale – del valore legale dei titoli di studio attribuiti dal nostro sistema di istruzione.

Tra l’altro, nessuno ha ancora non dico dimostrato, ma almeno provato a discutere la opportunità, anzi la possibilità stessa, di utilizzare le prove Invalsi per la valutazione dei singoli studenti. In tutti i paesi che ricorrono a prove standardizzate nazionali per valutare il livello di rendimento degli studenti in particolari momenti del loro percorso di istruzione, vengono costruite prove espressamente progettate per questo scopo, che non sono assimilabili alle prove utilizzate per le rilevazioni di sistema o volte a sostenere l’autovalutazione delle scuole. Cambieranno le prove Invalsi? Non mi sembra che la discussione su questi aspetti sia neanche iniziata. Non credo che l’attuale direzione e i ricercatori dell’Istituto non abbiano presenti questi problemi, ma non ho fino ad oggi registrato nessuna presa di posizione, né ufficiale, né ufficiosa.

Vorrei concludere riportando un passo di un saggio di Aldo Visalberghi del 1977, dedicato agli esami di Stato e all’uso dei risultati delle indagini comparative internazionali dell’IEA (“Rapporto generale sui risultati IEA in Italia e sulle ricerche connesse”, in Quaderni degli “Annali della Pubblica Istruzione” n. 5). Dopo aver messo in evidenza lo scarto tra risultati degli studenti negli esami ‘di maturità’ e i risultati da essi conseguiti nelle rilevazioni IEA e la necessità di riqualificare questi esami, Visalberghi ammoniva: «Né d'altronde tale riqualificazione degli esami dovrebbe puntare precipuamente su una loro accentuata capacità discriminativa analoga a quella del testing oggettivo del tipo IEA. In tal caso avremmo una percentuale di bocciati nel Sud tripla o quadrupla di quella del Nord del paese. Sarebbe veramente uno scotto troppo gravoso pagato al cosiddetto "valore legale" dei titoli di studio. Noi pensiamo che l'omogeneizzazione del prodotto scolastico su scala nazionale vada ottenuto con altri mezzi, e senza accentuare i dolorosi squilibri già esistenti e operanti».

Sono passati quaranta anni, ma questa consapevolezza è ancora del tutto estranea ai nostri decisori politici.

Di che cosa parliamo

All’espandersi delle attività valutative della scuola e delle università si affianca un senso sempre più diffuso di incertezza, di insoddisfazione, di insofferenza, in larga misura generato dall’alone di tipo ideologico che intorno alla valutazione è stato costruito.
Non  sempre le critiche e le resistenze nei confronti delle attività valutative risultano giustificate, al contrario, a volte nascondono criteri e procedure di valutazione degli studenti certamente non migliori delle prove utilizzate nelle rilevazioni nazionali.
È per questo che è necessario riaprire un dibattito pubblico sulla valutazione in grado di coinvolgere decisori politici, scuole, università e comunità scientifica.

L'autore

Insegno Pedagogia sperimentale e Docimologia all’Università Roma Tre – Dipartimento di Scienze della formazione.
Sono stato ricercatore presso l’Invalsi e insegnante di Scuola secondaria di II grado. Mi occupo di valutazione dei sistemi di istruzione e delle scuole, con un interesse particolare per la valutazione delle competenze chiave e di cittadinanza.