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di Marco Guastavignasopravvivere al 2.0

22/03/2019

Il paese dei balocchi programmabili*

Ci risiamo: 120 docenti di ogni ordine e grado saranno distaccati dal Superiore Ministero per coordinare l’innovazione tecnologica e metodologica nell’insieme delle scuole del territorio della Repubblica.

Sarebbe facile sottolineare polemicamente che i fondi necessari saranno scalati dall’insieme dei finanziamenti previsti per il Piano sulla Scuola Digitale.
Sarebbe ancor più facile prevedere che vi saranno difficoltà a proporre criteri di selezione convincenti e validi e polemiche sulle scelte effettuate – vogliamo sperare, peraltro, che le procedure siano questa volta trasparenti, e non assolutamente discutibili come nel caso dell’assegnazione dei fondi per gli ambienti innovativi.
Ma non sono questi gli aspetti su cui vale davvero la pena di ragionare, a fronte del replicarsi non solo e non tanto di un modo di operare, quanto piuttosto di un sistema di credenze del tutto inadeguato alla realtà in cui viviamo, soprattutto quando queste decisioni vengono messe in relazione con il tema della cittadinanza critica e attiva.

La vera deriva, infatti, non è procedurale, ma culturale e – ancor prima – antropologica. In premessa della gran parte dei ragionamenti, anche fortemente critici, sul tema della tecnologia a scuola e nella società vi sono infatti tre pregiudizi strutturali, , secondo la definizione di  Yuval Noah Harari.

Primo pregiudizio: la tecnologia digitale richiede conoscenze concettuali e operative proprie e neutre, che vanno acquisite per livelli successivi, passando da uno stadio basico ad altri, via via più evoluti.

Secondo pregiudizio: gli effetti della – cosiddetta – innovazione tecnologica non si sono totalmente dispiegati nel nostro Paese, a causa della sua arretratezza, di infrastrutture e investimenti insufficienti.

Terzo pregiudizio: gli insegnanti devono approcciarsi al mondo digitale a partire da una ratio esclusivamente didattico-metodologica, per di più a compensazione di una loro non meglio identificata obsolescenza professionale.

A fare da sfondo, un’idea di progresso, se non deterministica, davvero ingenua e pericolosa: privo di aggettivi e complementi di specificazione, disattento alle conseguenze economiche e sociali, in particolare sulle prospettive occupazionali, esso finisce per coincidere nella rappresentazione egemonica esclusivamente con un processo vincolato di ottimistico adattamento alla novità.

Per chi le vuole vedere, le esiziali implicazioni cognitive e culturali di questi pregiudizi sono a loro volta strutturali e – ahinoi! – si traducono in pratiche quotidiane. Un paio di esempi chiariranno.

Nella gran parte dei casi, le policies aziendali delle grandi corporation globali vietano ai minori di 13 anni l’uso dei loro servizi: in concreto, chi è in età pediatrica non potrebbe quindi né avere una casella di posta su Gmail né utilizzare WhatsApp. Questa semplice e categorica nozione è pressoché assente sia nella formazione degli insegnanti sia nei rapporti tra scuola e genitori. Si preferisce concentrarsi su cyberbullismo, isolando questo gravissimo problema dal contesto generale, dominato da un’ignoranza diffusa e da un’aspirazione alla modernità omologante che può portare il proprio desiderio di anticipazione delle esperienze fino alla falsificazione delle identità.

Come è noto, poi, tra le presunte competenze di base di tipo tecno-digitale si colloca la capacità di usare un motore di ricerca e Google è considerato paradigmatico. Se ne insegnano a docenti, scolari e studenti caratteristiche di base e “trucchi” per l’ottimizzazione, ma viene taciuta la sua funzione fondamentale: estrarre valore e quindi profitto dalla conoscenza umana. Google, infatti, impara dalle reazioni degli esseri umani alle sue risposte alle chiavi di ricerca e riorganizza in modo conseguente e dinamico i propri risultati. Se la gran parte degli utenti si orienta su certe pagine anziché su altre, il motore assegna maggiore pertinenza alle prime. La sua architettura è infatti orientata verso il consumo culturale e alla soddisfazione del bisogno immediato di informazioni da spendere sul momento - per la ricerca scientifica vera e propria c’è il poco noto Google Scholar. Google, inoltre, costruisce un profilo di chi accede ai suoi servizi con credenziali personalizzate: ne apprende e analizza orientamenti e inclinazioni, con cui alimenterà le proprie attività di marketing, e -considerando ciascun utente come micro-target distinto dagli altri- gli riserva i risultati di ricerca di volta in volta più coerenti con le scelte precedenti. L’utente X può quindi ricevere risposte diverse dall’utente Y. Bene, di tutto quanto appena esposto non vi è in genere traccia alcuna né nella formazione degli insegnanti né nei percorsi destinati agli studenti.

Grazie a vie traverse e contatti casuali alcuni verranno magari informati dell’esistenza di motori di ricerca che non tracciano e non profilano gli utenti, come Qwant e DuckDuckGo. Anche in questi fortunati casi, però, il punto su cui centrare il ragionamento sarà con ogni probabilità il rispetto della privacy; mancherà invece un affresco di carattere più generale, ovvero un riferimento al modello non solo culturale, ma economico e sociale, in atto, che i ricercatori e gli studiosi chiamano capitalismo di piattaforma, neurocapitalismo, capitalismo di sorveglianza.

La tendenza dell’istruzione, infatti, è piuttosto l’esaltazione del pensiero computazionale e del coding, senza alcuna attenzione critica alle implicazioni della cultura algoritmica.
Insomma: siamo già completamente e compiutamente dentro a ciò che qualcuno definisce Capitalocene: il mondo informazionale globalizzato esercita tutto il suo peso e la sua capacità di condizionamento sull’insieme delle esistenze degli esseri umani, in tutti i loro possibili rapporti.
Il “digitale” costituisce contemporaneamente l’infrastruttura più efficace e la rappresentazione più evidente di questo intreccio. È pertanto assolutamente vero che avere conoscenze chiare in proposito è ineludibile.

L’approccio culturale dovrebbe (deve per gli ottimisti della volontà) essere però rovesciato:

  1. Dovremmo/dobbiamo analizzare con volontà emancipante – e non omologante - una situazione che è già precisamente definita, i cui risvolti assegnano ruoli e pesi diversi a seconda della forza economica, degli investimenti diretti in imprese che agiscono direttamente nel mondo digitale;
     
  2. andrebbe/va data priorità agli aspetti sociali, economici e politici, perché è in queste sfere che si realizzano sfruttamento e condizionamento di individui e relazioni; le relative conoscenze critiche devono essere garantite a tutti;
     
  3. il personale della scuola dovrebbe/deve avere lo stesso approccio di tutti gli altri, perché non devono esistere cittadini principianti e cittadini evoluti.
 

*Devo il titolo e l’impostazione generale dell’articolo a uno scambio di idee conviviale con l’amico e collega Luigi Tremoloso

Di che cosa parliamo

La rubrica vuole essere presidio del senso critico, contrastare i diversi elementi della deriva demagogica dell’innovazione tecnologica: pensiero pedagogico unico, marketing concettuale, darwinismo digitale.

L'autore

Insegnante di Scuola secondaria di secondo grado e formatore, si occupa da quasi trent’anni di “nuove” tecnologie e rappresentazioni grafiche della conoscenza. Traccia la sua attività intellettuale in www.noiosito.it.




Fogarolo Flavio, Guastavigna Marco,  Insegnare e imparare con le mappe. Strategie logico-visive per l'organizzazione delle conoscenze, Centro Studi Erickson, 2013

Il volume - dedicato all'uso didattico e educativo delle mappe come strumento in grado di sostenere l'apprendimento attraverso l'organizzazione visiva, logica e funzionale delle proprie conoscenze analizza e confronta i tipi di rappresentazione grafica più efficaci, ciascuno con un diverso modello logico-visivo e con uno scopo cognitivo differente. Nel volume si forniscono inoltre indicazioni operative per migliorare l'efficacia delle mappe come strumento compensativo per gli alunni con difficoltà di apprendimento o inadeguato metodo di studio, nonché per ridurre i rischi sottesi al loro utilizzo come facilitatori (mappe fornite già pronte): banalizzazione dei contenuti, apprendimento meccanico, atteggiamento passivo da parte dello studente.