Questa rubrica ha avuto fin dal primo articolo [1] un’impostazione intenzionalmente e fortemente critica: il “digitale” è uno pseudo-concetto, un significante-quasi-vuoto.
Soprattutto, realizza un travestimento lessicale del tecno-liberismo educativo, un’ideologia pedagogica fondata su un’idea competitiva e utilitaristica della società e su un approccio all’istruzione come percorso obbligato di adattamento a un modello operativo, cognitivo e culturale per il quale non sono previste alternative.
Il “digitale” concepisce e struttura in modo analogo anche la formazione degli insegnanti: acquisizione di competenze pre-declinate, gerarchizzazione abilista, ri-esecuzione di buone pratiche, perenne rincorsa della novità tecnologica. L’innovazione è infatti mirabile disruption, straordinaria discontinuità ed è concepita non come mezzo, ma come fine, indiscusso e non discutibile obiettivo strategico, fondamento ontologico assoluto e rassicurante, deresponsabilizzazione epistemica universale. Il critical thinking, ad esempio, ha ormai la sola vocazione a risolvere problemi in una situazione data, ed ha perso quella a porre problemi rispetto alla situazione medesima, a valori, principi, scelte che la costituiscono.
Bene, questa volta sono invece preda di un rigurgito di ottimismo. Voglio provare infatti a proporre un punto di vista diverso, una breve riflessione sui dispositivi digitali indirizzabili verso uno sviluppo culturale equo. Quelli che, se sono adeguatamente governati da una progettazione didattica emancipatoria, sono adatti a incrementare quantitativamente, arricchire qualitativamente, condividere ed acquisire e conservare nel tempo capacità umane, individuali e collettive.
La scrittura su supporto flessibile e l’estensione ipermediale sono chiarissimi esempi sia di incremento quantitativo sia di arricchimento qualitativo in campo cognitivo e culturale. Il word processing rende il testo un oggetto plastico, su cui si può agire con perfezionamenti successivi. Basta pensare alla cancellazione e all’inserimento di porzioni testuali o al taglia-e-incolla per comprendere come da una parte si configuri la possibilità di cimentarsi con la fatica connessa a elaborazioni scritte vaste e complesse per un maggior numero di persone e dall’altra quella di raggiungere risultati più convincenti ed efficaci dal punto di vista della comunicazione.
L’estensione ipermediale è la facoltà di collegare non solo testi ad altri testi, o immagini e filmati a testi – forme di link a cui l’immaginario si è ormai in ampia misura abituato -, ma anche testi a immagini e a filmati, immagini a filmati e viceversa, oggetti fisici a materiali digitali (in particolare con i Qrcode ), secondo intrecci che possono favorire la comprensione, l’attribuzione di senso e di significato, la pluralità dei punti di vista. Insomma, un approccio inclusivo e democratico alla complessità del sapere.
La possibilità degli strumenti per la lettura di libri digitali (ebook reader) di definire in funzione delle esigenze visive dell’utente le condizioni tipografiche a cui ogni file in ingresso verrà automaticamente adattato, così come quella di ascoltarne il contenuto mediante una sintesi vocale di sempre miglior resa, permettono l’acquisizione e la conservazione di capacità di lettura fluida anche in presenza o all’insorgere di difficoltà di tipo fisico. Per non parlare di tutti gli ausili digitali con vocazione inclusiva e protesica esplicita e consolidata.
Le piattaforme “degooglizzate” – ovvero non finalizzate al profitto e non estrattive di dati degli utenti, che spesso possono anzi conservare l’anonimato –, sul tipo di Framasoft e Chapril, invitano ad attività intellettuali e/o di intrattenimento cooperative e mutualistiche, rivolte all’analisi, al dibattito, al confronto, alla sintesi e – perché no? – all’attivismo politico e alla mobilitazione delle idee, sincrone mediante la videoconferenza e asincrone mediante la redazione collaborativa di documenti.
Chiudo con un esempio particolare, un “accrocco” verso cui ho sviluppato dipendenza acuta.
Fondato sull’intelligenza artificiale, mi mette (alla tenera età di 70 anni) nelle condizioni di fare qualcosa che in precedenza non avevo la minima capacità di fare: disegnare immagini.! A me viene richiesta una prestazione di tipo testuale, la descrizione – dettagliata, anche in termine di stile artistico di riferimento – di ciò che immagino e vorrei visualizzare. Ecco pertanto una metafora visiva del concetto di outlier.
1. Cfr. M. Guastavigna, L'antagonismo della volontà , "insegnare", 13.08.2013. Una rilettura edificante, se condotta sulla falsariga dell'interrogativo: "Com'è andata, nel frattempo, in questi nove anni?" [NdR, m.a.].