Sono le 9.34 del mattino del 17 giugno 2015, il giorno dopo che – senza contraddittorio alcuno e con il consueto intervento mediale presso un conduttore la cui connotazione professionale più evidente e forse unica è la compiacenza verso il potere – il Presidente del Consiglio-Segretario di Partito ha esplicitato la propria intenzione ricattatoria nei confronti dell’istituzione parlamentare, delle rappresentanze sindacali, dei lavoratori interessati e dell’opinione pubblica.
Mi sono preso una piccola pausa e, tra un verbale e l’altro, sono al bar dell’istituto che ospita la commissione di cui sono presidente. Sul monitor televisivo – sintonizzato stabilmente su Rai News – già da un po’ scorrono gli abstract dei "temi", ”, che, dopo aver diligentemente riprodotto il cosiddetto “originale” (ovvero la copia delle tracce della prima prova solennemente stampata in presidenza dal referente per il plico telematico), ho finito di distribuire agli studenti alle 8.50.
Quei “temi” che il ministro Profumo – le cui vanterie in campo digitale hanno fatto epoca, per poi culminare nell’audizione urgente alla Camera sulle "Pillole del sapere" – aveva sostenuto sarebbero stati protetti nella trasmissione alle scuole via Internet addirittura con tecnologie militari.
Nonostante sia stata minacciata la mancata assunzione di parecchie decine di migliaia di persone, la “maturità” - così continua a chiamarla la vulgata corrente, in barba al fatto che da qualche lustro il suo nome ufficiale sia “Esame di Stato”, dal momento che adempie a un compito affidato alla scuola niente meno che dalla Costituzione, il rilascio di titoli con valore legale, quelli la cui abolizione era nel programma del principale movimento di opposizione parlamentare- è stata la prima notizia dei GR mattutini, ciascuno dei quali aveva un proprio inviato davanti alle porte dell’unico tipo di istituzione scolastica riconosciuta in queste occasioni dai media: il liceo, meglio se classico e metropolitano.
Del resto, nessuno degli intellettuali laureati che vengono ritualmente intervistati in merito al “tema” di italiano ha mai denunciato il demagogico inganno messo in atto dagli ideatori delle prove nei confronti degli studenti che nella redazione della prima prova si orientano in conseguenza del loro indirizzo di studi sulla produzione di un articolo o di un saggio breve di ambito tecnico-scientifico e devono però cimentarsi quasi esclusivamente con testi di natura filosofica, sociologica e così via, secondo prospettive che non appartengono al percorso culturale che la scuola frequentata ha loro proposto.
In questo triste panorama, qualche piccola novità: la trattazione di carattere storico è corredata di un breve documento, che dovrebbe rendere più circonstanziata l’esposizione; soprattutto, il plico delle tracce è composto di sole 6 facciate, risultando decisamente meno corposo degli anni passati, tanto che uno studente mi ha chiesto di confermargli che uno degli argomenti proposti fosse davvero corredato soltanto di due “documenti” su cui appoggiarsi.
L’allievo medio della scuola italiana è stato infatti abituato dalle simulazioni delle prove ad avere una quantità ben superiore di materiali da analizzare ed elaborare, dal momento che tali simulazioni vengono in genere realizzate utilizzando le tracce degli anni precedenti, in modo da risultare autentiche.
Le “simulazioni” costituiscono per altro, insieme al cosiddetto documento del 15 maggio, in cui ogni consiglio di classe descrive le proprie linee didattiche e formative, il riferimento fondamentale intorno a cui ogni commissione d’esame deve organizzare il proprio lavoro, così come ci ricorda ogni anno la relativa "ordinanza ministeriale", uscita questa volta il 29.5.2015, ovvero ben dopo che le scuole avevano realizzato i propri adempimenti.
A fare dotta esegesi di questo strumento normativo ai presidenti delle commissioni di esame – ovviamente dopo che gli stessi hanno incontrato i commissari e organizzato i lavori in linea generale nelle riunioni preliminari,– sono di anno in anno alcuni ineffabili dirigenti tecnici (“ispettori” per l’immaginario tradizionalista), che nelle diverse realtà locali formano i cosiddetti nuclei di supporto alle operazioni, insieme a alcuni dirigenti scolastici - qualcuno anche in quiescenza - e direttori amministrativi, nei confronti dei quali gli uffici periferici del MIUR hanno un particolare rapporto fiduciario.
Quest’anno la consueta e compiaciuta ermeneutica dell’ovvio è però inciampata davvero pesantemente: in parecchie località, infatti, i missi dominici del MIUR – per eccesso di consenso, non certo per coercizione – hanno sostenuto la tassatività di una evidentemente tardiva disposizione centrale, secondo la lettera della quale nella terza prova avrebbero dovuto essere coinvolte tutte le discipline oggetto del corso di studio, con un massimo di cinque e in rapporto alle abilitazioni in possesso del personale nominato.
Tale meccanica interpretazione confliggeva però con il fatto che la stragrande maggioranza delle scuole aveva invece operato sulla base delle precedenti disposizioni e soprattutto delle prassi rivelatisi in genere più consone sia all’accertamento degli apprendimenti sia all’equilibrio nella valutazione tra commissari interni e commissari esterni, ovvero strutturare la terza prova su quesiti relativi a 4 discipline.
Più efficace degli sbigottiti mormorii alla notizia e delle - in qualche caso anche mordaci - domande di chiarimento da parte dei presidenti di commissione nel dibattito successivo alla comunicazione è la ripresa della notizia da qualche importante quotidiano nel giorno di intervallo tra la stessa e la prova di italiano.
È allora infatti intervenuto con un capolavoro di tempestivo bizantinismo l’Ufficio stampa del ministero, che ha affiancato a un (presunto) chiarimento formale agli addetti ai lavori, confermante in realtà tutte le ambiguità dell’ordinanza, un meno impegnativo comunicato pubblico, che metteva definitivamente da parte la prospettiva dell’obbligatorietà delle 5 materie, attribuendola furbescamente a illazioni dei media e riportando così un minimo di serenità nelle commissioni e tra quei ragazzi che erano in qualche modo stati informati della questione.
Paradosso tra i paradossi, il fatto che per l’ambito socio-economico della tipologia B della prova di Italiano siano stati forniti ai ragazzi documenti atti a riflettere sulle competenze del cittadino contemporaneo, con riferimenti a prospettive di approccio alla realtà come pensiero critico o “capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell’altro”.