E così ci siamo: il “digitale” è diventato obbligatorio. Se non come azione didattica, certamente come caposaldo della formazione degli insegnanti; anzi, di tutto il personale della scuola.
Sulla fumosità di un aggettivo sostantivato progressivamente sussunto come concetto onnicomprensivo e multivalenziale abbiamo già detto.
In questa occasione vogliamo approfondire la correlazione sempre più stretta ed evidente tra la retorica dell’innovazione tecnologica e alcuni aspetti dell’ideologia neoliberista, che – nascondendosi dietro la mitologia del “fare” e del “cambiare” – introduce in tutti i contesti in cui si esplica pensiero unico, autoritarismo, espropriazione dei diritti.
Il Piano Nazionale per la Scuola Digitale, di cui le attuali iniziative sono un prolungamento operativo e strutturale, è infatti straordinariamente paradigmatico di ciò che la sociologia chiama problem closure (“chiusura del problema”), ovvero un modo di definire un problema la cui successiva analisi delle ragioni e delle implicazioni possa essere condotta con il criterio di precludere approcci alternativi.
La discussione presso gli addetti ai lavori non è infatti mai su che cosa significhi introdurre nella mediazione didattica gli attuali strumenti di comunicazione di tipo digitale, ma soltanto sul come introdurre l’innovazione digitale, che è in sé in atto nella società e che come tale va perseguita, che è sinonimo di futuro e sui cui esiti in termini di lavoro, diritti, relazioni umane, non vale la pena interrogarsi, perché è certa la sua intersezione con il progresso.
Di conseguenza, coloro che si dimostrano critici sono trattati come luddisti 2.0 e l’innovazione medesima coincide con la propaganda e la diffusione degli ultimi protagonisti del marketing lessicale, a cui si dedicano da tempo le istituzioni di governo e di supporto del nostro sistema di istruzione: dai learning object alle LIM, dagli eBook alle flipped classroom, dal BYOD allo storytelling. Insomma, un turbinio di successioni totemiche, con lo sconcerto dei pochi che si sono accorti di come alcuni dei protagonisti di questa saga metodologica, avventatamente partiti per r@mediare la scuola, si siano dovuti ridurre a rimediare i danni provocati all’erario.
A essere sinceri, c’è stata anche qualche riflessione in più. C’è stato, per esempio, chi ha cercato di sistematizzare le cosiddette competenze digitali e di dare loro scientificità, declinandone gli aspetti strettamente tecnologici, ma anche quelli di tipo etico-giuridico e di tipo cognitivo. Salvo poi cadere nelle lusinghe della logica che ha preparato la Buona Scuola, ovvero la centralità del dirigente scolastico, e quindi lasciarsi incantare dalla possibilità di lavorare con ANP, accettandone la prospettiva di definitiva gerarchizzazione delle istituzioni scolastiche della Repubblica, e con Microsoft, ovvero con un’azienda con obiettivi di profitto e aspirazioni di mercato egemoniche.
Questa cessione di sovranità intellettuale e professionale, per altro, non è un fatto isolato. È piuttosto una costante culturale dell’approccio ordinario all’introduzione delle strumentazioni digitali nella scuola.
Il pensiero pedagogico unico non è disposto a fare i conti, per esempio, con il concetto di capitalismo cognitivo, ovvero con il fatto che le corporation multinazionali fornitrici di servizi apparentemente gratuiti estraggono valore dalle informazioni che gli utenti forniscono loro quotidianamente, grazie ai loro algoritmi e alla produzione di metadati.
Oppure con il fatto che l’idea che qualsiasi situazione sia affrontabile con l’acquisizione e l’organizzazione delle informazioni necessarie configuri una rinuncia alla politica, intesa come concepimento, progettazione e realizzazione di alternative mediante l’impegno comune.
O ancora con il confinamento di fatto dentro recinti identitari, dove sono assenti il confronto e l’argomentazione, poco nota potenziale conseguenza di una intensa attività sui social, il cui algoritmo base prevede la presentazione prioritaria delle informazioni relative a coloro a cui abbiamo manifestato il nostro gradimento, soprattutto quando essa sostituisca le relazioni umane vere e proprie. Con buona pace di chi ancora ricorda il concetto di alienazione e quello di falso bisogno.
Detto in altre parole, l’attuale concezione dell’educazione al e con il digitale consolida sempre di più, non solo presso scolari e studenti, ma anche presso il personale della scuola, l’acquisizione di discompetenze di cittadinanza acritica, di una mentalità succube agli obiettivi e alle pratiche dei centri di potere e di decisione che configurano le infrastrutture operative e le logiche di funzionamento del mercato della conoscenza.