Titolo originale: Maraviglioso Boccaccio
Genere: Commedia, Drammatico, Storico
Regia: Paolo e Vittorio Taviani
Sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani Interpreti : Lello Arena, Melissa Bartolini, Paola Cortellesi, Eugenia Costantini, Carolina Crescentini, Moisè Curia, Miriam Dalmazio, Camilla Diana, Fabrizio Falco, Ilaria Giachi, Barbara Giordano, Lino Guanciale, Rosabell Laurenti Sellers, Flavio Parenti, Vittoria Puccini, Michele Riondino, Kim Rossi Stuart, Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca, Josafat Vagni
Fotografia: Simone Zampagni
Musiche: Giuliano Taviani e Carmelo Travia
Produzione: Italia, 2015
Quando bravi registi portano sullo schermo opere letterarie, giocano tra la fedeltà al testo, l’interpretazione e, specialmente se si tratta di un’opera classica di un tempo molto lontano dal nostro, su un adeguamento narrativo e figurativo al gusto del pubblico contemporaneo. Paolo e Vittorio Taviani con Maraviglioso Boccaccio per la seconda volta (nel 1984 avevano rappresentato in Kaos testi del siciliano Luigi Pirandello) portano sullo schermo delle novelle letterarie di autori classici. Oggi i registi Taviani, toscani, tornano dunque a fare un cinema di ispirazione letteraria attingendo i soggetti dal grande narratore classico della loro Toscana: Giovanni Boccaccio.
Per esplicita dichiarazione nelle loro interviste, la scelta di rappresentare il Decameron era apparsa subito alle loro menti come la più adeguata per trattare gli argomenti esistenziali utili a rafforzare la resistenza delle ragazze e dei ragazzi d’oggi di fronte alle difficoltà della vita contemporanea: la vitalità con cui i giovani, ma soprattutto le donne, reagiscono o possono reagire di fronte ai pericoli incombenti di morte e la possibilità di contrastare la paura con la bellezza. Nella peste descritta da Boccaccio i Taviani hanno visto il pretesto di illustrare simbolicamente le varie minacce che oggi ci circondano: dal terrorismo Jihadista agli sconvolgimenti della vita civile a causa della crisi. Le prime sequenze del film sono magistrali per il modo sinteticamente visivo in cui viene tradotta in narrazione cinematografica la descrizione del Decameron sugli effetti della peste nera del 1348 a Firenze. La scelta delle immagini e delle scene operata dai Taviani è qui doppiamente significativa, perché da una parte è quasi letteralmente aderente al testo medievale e dall’altra si fa in certi casi allusiva ai mali del nostro tempo.
Il film si apre con un uomo di spalle, in cima a una finestra del campanile di Giotto, dalla quale pochi secondi dopo si butta nel vuoto. Qui è inevitabile cogliere l’analogia tra questo suicidio e le immagini, che abbiamo tutti ancora negli occhi, di coloro che si gettavano dalle torri gemelle l’undici settembre del 2001. Seguono altre scene più attinenti al testo di Boccaccio, come per esempio le persone che per le strade camminano odorando mazzi di fiori campestri, che, secondo la superstizione medievale, avrebbero potuto difendere dal contagio. Poi c’è la citazione testuale dell’orrore, sotto gli occhi di tutti, perché non c’è personale sufficiente per sgomberare le vie dai corpi in putrefazione: come nel quadro picassiano Guernica, ai cadaveri umani si aggiungono quelli degli animali stramazzati, un cavallo e un porco, colpiti anche loro dalla peste. In particolare la visione dei cadaveri rinsecchiti ammassati in una fossa comune ci dà i brividi per l’analogia con l’orrore nei campi di sterminio nazisti.
La scena poi passa all’interno di Santa Maria Novella, dove sette giovani donne, tra i diciotto e i ventotto anni, si riuniscono per cercare di resistere alle tante sofferenze arrivando a prendere in considerazione l’idea, suggerita da Pampinea, la più anziana, di fuggire dalla città in preda alla peste e soffocata dal caldo dell’estate (è il mese di luglio). Decidono così di rifugiarsi in una villa nella campagna circostante per potersi difendere non solo dal contagio, ma anche dalla tristezza degli orrendi eventi e spettacoli provocati dalla peste a Firenze. Queste ragazze vogliono vivere e convincono anche tre giovani amici, che entrano in chiesa in quello stesso momento, a unirsi al loro programma. Segue l’ambiente della casa nella campagna fiorentina, dove il paesaggio ha i colori e la luce dei quadri rinascimentali e la riunione delle sette donne e dei tre giovani sull’erba del giardino sembra rispecchiare quadri in cui si imparentano classicità e impressionismo.
Vengono stabilite nel consenso generale le regole da rispettare per dare una disciplina al soggiorno della brigata in villa: le tre coppie (i maschi sono solo tre) dovranno attenersi a un comportamento casto (nel film si dice per non far nascere invidie in quelle che non hanno con loro il proprio compagno) e, per passare il tempo e dimenticare l’orrore e i dolori lasciati in città, si racconteranno a turno delle storie, su argomenti a piacere (a differenza del Decameron, dove ogni giornata ha una regina e un tema). Il resto del tempo lo impiegheranno nel provvedere alle loro necessità, come facevano i contadini. In una bella scena le donne impastano e i tre giovani infornano il pane. Si tratta qui di una invenzione dei registi, preoccupati evidentemente di rendere il contesto più verosimile, quindi realistico, ai nostri occhi moderni, perché la narrazione di Boccaccio, invece, attribuisce, secondo le usanze medievali, tutte le incombenze domestiche a una specifica servitù, di cui fa perfino i nomi.
Le cinque novelle rappresentate sono state scelte dai registi (tra le cento dell’opera letteraria) secondo un criterio abbastanza preciso: “ne avevamo in mente molte – spiega Vittorio Taviani – ma per il nostro film dovevano avere tre pulsioni, una riflessa nell’altra: quella dell’orrore della vicenda umana di ieri e di oggi, quella di questi giovani che stanno per dire di non aver più voglia di vivere e invece poi vogliono farlo, e la fantasia che ci aiuta a revocare immagini raccontando quello che gli uomini possono fare di grande, di bello e di osceno e dove l’amore è quello che ‘move il sole e l’altre stelle’”.
Le novelle narrate in Meraviglioso Boccaccio, come dichiara una didascalia in testa al film, sono “liberamente tratte dal Decameron”. Il titolo richiama l’autore piuttosto che la specificità dell’opera: i registi hanno voluto creare un film che facesse conoscere le qualità essenziali del grande narratore toscano, il suo sguardo profondamente umanistico sulla vita, sfaccettato nella varietà e relatività del caso, tra drammaticità dei sentimenti e comicità delle situazioni e dei comportamenti. Con l’aggettivo “meraviglioso” hanno voluto poi sottolineare la curiosità e lo stupore con cui l’autore umanista osserva e racconta realisticamente la varietà degli esseri e degli eventi, per lo più casuali e inevitabili, in cui si dipana la nostra vita. Le novelle sono state qua e là trasformate per accentuare, e soprattutto, rendere ancora attuale lo scopo comunicativo, anche se i cambiamenti operati dai Taviani non sono tali da renderle irriconoscibili rispetto al testo originario. Eccole nella sequenza in cui sono rappresentate nel film e, tra parentesi, nella rispettiva collocazione nel Decameron:
Tre di queste novelle sono drammatiche, ma a lieto fine, e due comiche. La prima è ancora ambientata nel contesto della peste: una giovane donna, Catalina, allontanata egoisticamente dal marito e dalla suocera perché ammalata, viene creduta morta durante il viaggio verso il podere della famiglia e lasciata nel sepolcro di una cappella isolata. Qui un uomo che l’ama da sempre da lontano la trova, la scopre ancora viva, la rianima e la salva portandola a curarsi nella sua casa. Solo nella conclusione i Taviani hanno operato un cambiamento per correggere in senso moderno quanto poteva apparire troppo strettamente attinente al costume medievale sui rapporti uomo-donna.
Anche le altre novelle sono state un po’ spogliate delle loro connotazioni antiche, soprattutto riguardo alle immagini più spiccatamente lontane dalla cultura attuale. Ma si è trattato di una manipolazione leggera, soprattutto esteriore, che, però, proprio per il continuo tentativo di cambiare senza stravolgere il testo, ha reso spesso algide, in un certo senso piatte, le narrazioni, nonostante la buona recitazione degli attori. Le novelle che si sono prestate forse di più alla traduzione cinematografica sono quella di “Calandrino” e quella de “La badessa”: vicine al genere della commedia, hanno reso più facile allo sceneggiatore il passaggio dal linguaggio del testo narrativo di Boccaccio alla teatralità dei dialoghi e delle immagini costruita dai registi.
Stranamente alla fine del film, quando viene deciso il ritorno a Firenze, viene detto, per pura fedeltà letterale al testo di Boccaccio, che sono trascorse così quindici notti. Questa indicazione temporale appare sproporzionata rispetto al ristretto numero delle azioni e delle novelle raccontate nel film (solo cinque). Soprattutto chi non ha letto integralmente il Decameron si stupisce che le dieci giornate indicate dal titolo dell’opera (composto dal greco antico δέκα, déka, "dieci", ed ἡμερών, hēmeròn "giorni", con il significato di "[opera] di dieci giorni"), diventino per i registi Taviani quattordici, più una notte. Ma Boccaccio si riferiva nel titolo alle dieci giornate in cui si raccontavano le novelle, alle quali però, per conteggiare il totale del tempo del soggiorno in campagna, vanno aggiunti i quattro giorni (due venerdì e due sabati) stabiliti di riposo. Non si capisce questa scelta dei registi di enunciare letteralmente lo stesso tempo conteggiato nel libro, senza aggiungere le testuali motivazioni, e a titolo del tutto gratuito rispetto alla impostazione narrativa nel film.
Il film, se non può essere esente da critiche nel suo complesso, si presta comunque a una visione piacevole e, almeno in alcune scene, esteticamente soddisfacente. Inoltre offre agli studenti, e non solo, l’occasione di un confronto con il testo del Decameron, attraverso una sua approfondita lettura, e le soluzioni cinematografiche. È significativo il fatto che con questo esempio, dopo Il giovane favoloso di Mario Martone, nell’arco di pochi mesi ben due film (che presto saranno tre con il film di Matteo Garrone su Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile) ci inducono a tornare a leggere i classici della letteratura italiana. Inoltre entrambi i film sono intitolati con attributi di significato superlativo per i rispettivi autori classici. Nella crisi che l’Italia sta attraversando forse un’arte popolare come il cinema è implicitamente sollecitata, a ripercorrere le radici culturali della nostra nazione.
Un precedente film di Paolo e Vittorio Taviani, Kaos (nel 1984, decimo della loro produzione), tratto da un’altra raccolta di novelle letterarie permette un confronto soprattutto stilistico, tra continuità e discontinuità.
Titolo originale: Kaos
Genere: Commedia, Drammatico
Regia: Paolo e Vittorio Taviani
Sceneggiatura:Paolo e Vittorio Taviani, Tonino Guerra
Interpreti : Omero Antonutii, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Regina Bianchi
Musiche: Nicola Piovani
Produzione: Italia, 1984
Un corvo nero si libra sopra la Sicilia di Luigi Pirandello con un campanello appeso al collo, un’ immagine come un filo che collega le quattro novelle che compongono il film.
“L'altro figlio” racconta l'odio di una madre nei confronti di uno dei suoi figli, il cui preoccupante aspetto sembra essere la reincarnazione vivente dell'uomo che l'ha violentata.
“Mal di luna” mostra l'amore, l'angoscia e il desiderio di una giovane sposa, Sidora, di fronte alla malattia sconosciuta di suo marito Bata. Quest'ultimo, infatti, nelle notti di luna piena è colto da raptus violenti e incontrollabili...
“La giara” presenta un proprietario terriero che fa riparare una costosa giara da un esperto artigiano, ma questi ne rimarrà bloccato all'interno (il racconto è interpretato da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia).
“Requiem” descrive la lotta dei contadini contro gli amministratori di Ragusa che non permettono di seppellire il patriarca sui loro altipiani invece che nel lontano cimitero della città.
Nell'epilogo Pirandello parla al fantasma di sua madre a proposito di un episodio autobiografico che avrebbe voluto, ma non ha potuto, scrivere perché gli mancavano le parole.
Più volte i fratelli Taviani si concedono alcune libertà nell'adattamento cinematografico del testo pirandelliano originale, sempre nel rispetto però di quanto l’Autore aveva voluto significare (si veda per esempio la fine di “Requiem”), cioè la sicilianità, tra amore della terra e lotta contro la fatalità. Ma non vengono trascurati neanche i sentimenti che sono alla base della creatività di Pirandello, con significative capacità di comprensione empatica delle varie individualità. L'esempio più notevole è l'ultimo episodio del film, “Colloquio con la madre”, ambientato proprio in quella villa realmente denominata dai Pirandello “Kaos” e che dà il titolo al film, dove la malinconia dei ricordi viene stemperata dalla ragione di vivere. Viene rappresentato dai due registi un affetto filiale che non dipende dalla presenza fisica della persona amata, interpretando così intimamente la sensibilità umana dello scrittore siciliano.