Titolo originale: Il giovane favoloso
Genere: Biografico, Drammatico, Storico
Regia: Mario Martone
Sceneggiatura: Mario Martone, Ippolita Di Majo
Interpreti : Elio Giordano, Isabella Ragonese, Michele Riondino, Massimo Popolizio, Edoardo Natoli, Anna Mouglalis, Valerio Binasco, Paolo Graziosi
Fotografia: Renato Berta
Musiche: Sascha Ring, Gioacchino Rossini
Produzione: Italia
Anno: 2014
“Così ho pensato di andare verso la Grotta,
in fondo alla quale, in un paese di luce,
dorme, da cento anni, il giovane favoloso.”
(Anna Maria Ortese, Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi)
Martone e Leopardi, genio ribelle
Mario Martone ha tratto dalla definizione di Leopardi fatta da Ortese, una scrittrice a lui ben nota, il titolo del suo film biografico sul Poeta. Dopo il successo della sua rappresentazione teatrale de Le operette morali (2011) aveva continuato ad alimentare il suo antico desiderio di portare sullo schermo la vita del Poeta. Già nel 2004 ne aveva rappresentato in teatro il personaggio, accanto ad altri due, ugualmente napoletani non nativi: Caravaggio e la stessa Anna Maria Ortese, ispirandosi per questa ultima a L’opera segreta, una raccolta dei testi della scrittrice a cura di Enzo Moscato.
Nel film si coniugano questo amore del regista per Napoli, sua città natale, e quello per la personalità stessa del “giovane favoloso”. La sua simpatia per il Poeta recanatese evidentemente ha contagiato anche l’attore che nel film lo impersona, cioè un sensibile, concentratissimo Elio Germano, che ha studiato anche lui, come gli sceneggiatori, gran parte della produzione leopardiana per immedesimarsi nella parte. La pubblicazione della sceneggiatura (Mario Martone e Ippolita di Majo, Il giovane favoloso. La vita di Giacomo Leopardi, Milano, Mondadori 2014) ne dà atto, offrendo, in una appendice a cura di Ippolita di Majo, una scelta di lettere, di aforismi dai Pensieri e di brani dello Zibaldone, raccolti “cercando Giacomo”, come indica il titolo dell’introduzione. Infatti in tutti i dialoghi del film gli interventi attribuiti a Leopardi sono tratti da suoi testi. Inoltre, come ha dichiarato il regista stesso, raccontare la vita interiore, intellettuale e sentimentale, di questo Poeta è stato reso possibile dall’autobiografismo presente in tutta la sua produzione letteraria.
Il primo ‘800 e il cinema civile di Martone
Dopo aver raccontato l’età del Risorgimento dal 1828 al 1862 nel film Noi credevamo (2010), liberamente tratto dal romanzo di Anna Banti, Martone torna a trattare al cinema il tema della necessità di illustrare l’intento di un rinnovamento culturale e morale degli italiani, avvertito nel XIX secolo dagli intellettuali più illuminati. Giustamente ha commentato in proposito Roberto Saviano: “Martone è attratto dall’Italia che poteva essere e non è stata”. Proprio nel delineare una biografia di Giacomo Leopardi il regista sembra voler raccontare come nel pensiero e nella sensibilità di un genio precoce come lui, era stato concepito per la prima volta in modo laico il fondamento filosofico che avrebbe dovuto ispirare un miglioramento dei “costumi degli italiani”, anche se il saggio relativo di Leopardi (il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani, scritto nel 1824 e pubblicato per la prima volta solo nel 1906) nel film non è citato.
La breve vita del “giovane favoloso” (1798-1837), nato e formatosi a Recanati, in una famiglia nobile dello Stato pontificio, si svolge durante l’età della Restaurazione, cioè in un ambiente e un tempo di imperante conformismo reazionario e bigotto. Pertanto, per le sue idee nuove, liberal democratiche, Leopardi dai contemporanei era considerato un rivoluzionario. Per raffigurare, dunque, come questo singolare personaggio, dal pensiero moderno, fosse fuori del suo tempo, nel manifesto del film il primo piano del suo interprete, Elio Germano, è presentato capovolto. La focalizzazione sulla figura e la vita interiore del protagonista, senza le interferenze di avvenimenti esterni, è resa possibile dal fatto che il contesto storico nel periodo in cui si svolge la vita del Poeta recanatese, era privo di rivolgimenti incisivi come quelli che si sarebbero messi in moto solo più tardi, dopo la sua morte.
Leopardi e il piacere dell’immaginazione: dall’erudizione al bello
Il padre Monaldo, uno studioso di un certo prestigio, ma allineato con le menti più reazionarie del suo tempo e del suo rango, attorniato da quelle ancora più retrive dei parenti prossimi, possiede una biblioteca ricca di opere antiche liberamente accessibili e di altre, tra quelle moderne, giudicate pericolose, e pertanto chiuse con una chiave solo da lui rigorosamente custodita. Quindi i libri costituiscono presto per Giacomo l’unica fonte di soddisfazione delle sue immense curiosità, l’unica apertura al mondo possibile per lui nell’ambiente chiuso in cui era nato e costretto a vivere. Lo studio diventa per lui anche un rifugio in se stesso, privo com’era fin da piccolo dell’affetto della madre, Adelaide Antici, donna algida e anaffettiva.
Primogenito, istruito da un precettore insieme al fratello Carlo e alla sorella Paolina (il film non nomina un terzo fratello, il minore), Giacomo rivela sempre più doti intellettuali eccezionali, una genialità precocissima, con orgogliosa soddisfazione del genitore, che lo approva e incita a dedicarsi tutto agli studi classici e filologici. Ma il bambino prodigio presenta presto disturbi fisici accompagnati, data la sua grande sensibilità, da alcuni disagi di tipo psicologico, che si esprimono in bizzarre fobie. Tuttavia, come qualunque altro ragazzino, egli gioca spensierato e ride gioiosamente: Martone ce lo mostra proprio così, nella prima scena del film, volendo subito evidenziare come il pessimismo del Leopardi adulto avesse le sue radici in un troppo grande desiderio del piacere, anche sensuale (lo si mostra infatti ghiotto di dolci e gelati). Quanto più assoluto è il suo bisogno di felicità, nell’illusione infantile, tanto più, con la crescita della conoscenza, in età adulta, questo si traduce in una amara delusione esistenziale. È proprio il bisogno del piacere che porta Leopardi, sul finire dell’età adolescenziale, dopo sette anni di assiduo studio (“matto e disperatissimo”), ad avvicinarsi al gusto estetico con la creazione poetica: una trasformazione che lui stesso definisce “conversione dall’erudizione al bello”.
Martone e Ippolita di Majo, che hanno coelaborato la sceneggiatura, hanno presentato Giacomo davanti a un libro aperto sul tavolo di studio in biblioteca, sempre seduto accanto a una finestra che offre una veduta limitata. Evidentemente avevano letto questo passo nello Zibaldone:
“… il desiderio dell'infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l'immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L'anima s’ immagina quello che non vede, che quell'albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l'immaginario. Quindi il piacere ch'io provava sempre da fanciullo, e anche ora nel vedere il cielo ecc. attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia, come chiamano.” ( luglio 1820)
Ed ecco dunque nel film la scena in cui Leopardi con espressione sognante è seduto in mezzo alla vegetazione del monte Tabor di Recanati, dove la visione panoramica è impedita parzialmente dalla sterpaglia. Proprio qui l’attore Germano interpreta la incredibile sensibilità del Poeta, ventenne, recitando, con pensosa intensità, L’infinito, poetico elogio del piacere dell’immaginazione, come in un’estasi: “…E il naufragar m’è dolce in questo mare.”.
Giacomo cerca la liberazione dalla “gabbia”
Ma il desiderio di conoscenza sempre più nuova e vitale rende il giovane Leopardi insofferente della vita solitaria che è costretto a condurre in Recanati, dove si sente in “gabbia”, più deriso che compreso dai conterranei: avrebbe bisogno di incontrare persone con visioni del mondo più moderne, aperte, progressiste, dalle quali essere capito. Giacomo legge periodici contemporanei che gli forniscono anche i nomi di personalità della cultura di questo tipo. Scopre Pietro Giordani e inizia con lui una corrispondenza. Martone racconta, non discostandosi minimamente dalla relativa documentazione epistolare, l’amicizia tra quest’ultimo, intellettuale maturo, e il giovane Leopardi. Il film mostra il conte Monaldo combattuto, in occasione della visita del Giordani, tra il compiacimento per la stima che il grande studioso già affermato ha per il suo precoce figliolo e la paura che questo possa essere influenzato da quell’intellettuale liberale. Anche se Giacomo ha maturato da solo idee diverse da quelle del padre, dall’amicizia con Giordani riceve quelle conferme che gli danno il coraggio per ribellarsi e uscire da Recanati.
La riflessione filosofica: dal bello al vero
Il regista, a questo punto della biografia, avrebbe dovuto soffermarsi di più su quella fase di ulteriore cambiamento nel suo pensiero, da Leopardi stesso definita come la sua “conversione dal bello al vero”. Tale scoperta della dimensione filosofica della conoscenza fu sconvolgente per il Poeta: improvvisamente nella sua produzione si aprì una lunga fase di silenzio poetico. Sappiamo che comunque proprio durante quei sei anni (1822 – 1828) egli scrisse testi in prosa, soprattutto alcune Operette Morali e buona parte delle riflessioni filosofiche e filologiche dello Zibaldone. Il film mostra Giacomo che prima di andarsene definitivamente da Recanati, quando affida il manoscritto dello Zibaldone alla sorella Paolina, risponde da par suo alla sua domanda su che cosa è il vero: “Il vero è il dubbio. Chi dubita sa, e sa più che si possa”.
L’aspetto di Leopardi che viene più nettamente evidenziato nel film rispetto a quello della svolta con la scoperta del vero dopo i vent’anni, è però l’insofferenza e la ribellione contro la chiusura mentale dei genitori e dell’ambiente: il conservatorismo del padre, il dogmatismo religioso dei recanatesi e l’ottusità, il bigottismo della madre. Martone la mostra atroce nel fare - secondo lei “cristianamente”- le condoglianze al padre di Teresa Fattorini (la figlia del cocchiere di casa Leopardi a Recanati, morta di tisi a 21 anni) con queste parole: “È giorno lieto quello in cui Iddio chiama a sé una delle sue anime”. Giacomo appare inorridito da una tale considerazione mentre sente profondamente ingiusta la morte di una giovanissima, che aggiunge un altro tassello alla sua concezione della “natura matrigna” (evidentemente si allude qui alla sua successiva composizione di A Silvia nel 1828).
La natura, come personaggio simbolico del Dialogo della Natura e di un islandese, in parte declamato, nella seconda parte del film, viene raffigurata come una gigantessa di sabbia che svetta in un deserto: con le fattezze della madre Adelaide è sul punto di sfaldarsi. L’immagine è bella, ma forse poco comprensibile nel suo vero significato da coloro che non conoscono i testi delle Operette.
Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1829-30) nel film viene appena nominato da Giordani, mentre a Firenze passeggia sulle rive dell’Arno con Leopardi: “Quanto ho ammirato le tue prime poesie…e le nuove. Quanto è stupendo quel tuo Pastore errante dell’Asia!” Se non questo, almeno uno degli altri canti pisano-recanatesi del 1829, composti dopo A silvia, durante la malattia agli occhi (i “sedici mesi di notte orribile”), avrebbe meritato la citazione di qualche verso, scegliendo forse tra La quiete dopo la tempesta, Il passero solitario o, ancor meglio, Le Ricordanze. La necessità di contenere la narrazione biografica in tempi filmici moderati forse non basta a giustificare la mancanza di attenzione alla produzione certamente più significativa del suo forzato ritorno a Recanati per motivi di salute per raccontare l’evoluzione non solo della poesia, ma soprattutto del pensiero di Leopardi.
A Firenze tra sentimenti e delusioni
Giustamente, invece, Martone evita i dettagli relativi ai brevi viaggi di Leopardi (a Milano, Bologna, Ravenna, Perugia, Spoleto, Pisa), spesso compiuti per motivi editoriali e, con un salto cronologico di una decina di anni (1820-1830), lo mostra a Firenze, nel Gabinetto dell’editore e scrittore di origine svizzera Giovan Pietro Vieussieux. In questo luogo, affollato di intellettuali, viene comunicato a Leopardi che le Operette morali non hanno vinto il premio dell’Accademia della crusca, assegnato invece a Carlo Botta. Giordani capisce che il rifiuto della premiazione è dovuto al contenuto antireligioso, dato che facevano parte della giuria anche dei preti: Alessandro Manzoni sarebbe stato il preferito se avesse partecipato al concorso. Il cattolico Niccolò Tommaseo, che non sopporta il pessimismo miscredente delle Operette morali, sbotta sempre nella stessa scena in una battuta sarcastica alle spalle dell’autore: “Di Leopardi nel Novecento non rimarrà neppure la gobba!”.
A Firenze Leopardi incontra però anche degli ammiratori. Il regista mostra, presentando la scena di un gioco a mosca cieca a tre su un prato di Fiesole, l’amicizia divertita e innamorata di Giacomo per due persone che lo stimano particolarmente: lo studente esule napoletano Antonio Giuseppe Ranieri, di nobile famiglia, e l’avvenente Fanny Ronchivecchi Targioni Tozzetti, una nobildonna italiana, animatrice di un salotto letterario e madre di due bambine. A questa, quando Giordani mostra loro con ammirazione la scultura di Psiche di Pietro Tenerani, Leopardi sussurra: “Amava ad occhi chiusi senza vedere chi fosse l'amato. Non c'è favola più bella di Amore e psiche”. Una sola frase che vale per delineare due sentimenti di Giacomo: il suo amore per le “favole antiche” e il desiderio di essere amato a prescindere dalle deformità del suo corpo.
Del resto il periodo fiorentino di Giacomo viene raccontato nel film evidenziando sia le sue difficoltà del rapporto con gli intellettuali liberali del circolo dell’ Antologia, di cui fa parte Giordani, ma anche Tommaseo, sia il suo amore non corrisposto per Fanny, mentre assiste alla vitalità prorompente dell’amico Ranieri, che diviene l’amante della donna. Sconfortato dalla deludente certezza di essere rifiutato da lei, Giacomo volentieri vuole scappare dalla Toscana per stabilirsi a Napoli con Ranieri. Ma passa da Roma, dove va a trovare lo zio Carlo Antici, attraverso il quale potrà ricevere il denaro che gli manda il padre, anche di nascosto dalla madre. Nel rappresentare la conversazione a tavola con questi parenti Martone coglie l’occasione per introdurre qui un discorso di Leopardi testuale nello Zibaldone: “Farsi pagare per ascoltare, questo sarebbe un buon affare, visto che ora scrivono tutti! … Addormentandosi l’ascoltante, si dovrebbe rimettere al lettore la terza parte del prezzo debito”.
Poi a Napoli nel 1833 Leopardi esprime la sua infelicità sentimentale in cinque poesie sul tema dell’amore e morte, chiamate, con riferimento alla delusione per Fanny, ciclo di Aspasia (nell'Antica Grecia, Aspasia di Mileto era nota come la concubina di Pericle): Il pensiero dominante, Amore e Morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia. Di quattro di queste Martone cita qualche verso, indipendentemente dai riferimenti ai rispettivi testi (l’attribuzione relativa è reperibile con una breve ricerca, ma non necessaria alla comprensione delle scene), mostrando Giacomo che li detta a Ranieri. Invece, come il regista stesso ha spiegato in una intervista televisiva, era già apparso un riferimento a un verso di A se stesso (…e fango è il mondo) nelle sequenze, precedenti, su Giacomo a Firenze, quando era apparso rotolarsi nel fango in riva all’Arno, subito dopo aver scoperto la relazione tra Fanny e Ranieri.
Le intense, e feconde, esperienze napoletane
L’ ultimo tratto della vita di Leopardi, a Napoli, viene raccontato da Martone con una maggiore libertà interpretativa, con una teatralità quasi folcloristica che ad alcuni, sia tra il pubblico sia tra i critici, non è piaciuta. Le scene napoletane che avviano il film verso la conclusione sono state giudicate stucchevolmente romanzesche, come negli sceneggiati televisivi, ingiustificate rispetto alla rigorosa biografia intellettuale che si era voluta ricostruire sullo schermo, soprattutto nella prima parte. Il fatto è che il regista qui doveva cercare di offrire allo spettatore una spiegazione visiva su come e perché sia avvenuta una ulteriore evoluzione del pensiero leopardiano, dopo la disperazione nichilista espressa in A se stesso, arrivando al messaggio costruttivo che egli regala all’umanità in quella specie di testamento spirituale - un testo morale e civile - espresso poeticamente che è La ginestra. Il film infatti si chiuderà non con la morte del Poeta, ma con la recitazione, sulle labbra del bravissimo attore interprete, di alcuni versi di questo suo penultimo canto (è significativo il fatto che l’ultima composizione poetica di Leopardi, Il tramonto della luna, dove la negatività arriva al culmine, non sia citata da Martone).
Martone dunque riesce a spiegare come Leopardi, tormentato sempre più dai dolori fisici e dalle incertezze economiche (dipendeva dal sostentamento del padre, come lo stesso Ranieri dal suo), grazie alle esperienze napoletane, arrivi, a un anno dalla morte (1836), a formulare una autentica morale laica: l’uomo deve opporre resistenza contro le sopraffazioni della natura, riconoscerle e fronteggiarle, come il fiore della ginestra, che cresce impavido sulle sponde aride del Vesuvio, al rischio continuo d’essere inghiottito dalla lava delle eruzioni. Per poter resistere però gli esseri umani non hanno nessuna altra possibilità se non unirsi in società istituzionalizzate e democratiche.
Martone, da napoletano amante della sua città natale, già altre cinque volte da lui portata sullo schermo in precedenti film, immagina, e drammatizza come l’esperienza della socialità della Napoli plebea trasmetta anche a Leopardi un vitalistico amore per il prossimo. In una intervista infatti afferma che: “Napoli ha una forza indistruttibile. Pur in condizioni drammatiche è un eterno limbo, un purgatorio sempre capace di rivelazioni umane”. Ecco perché egli sceglie di rappresentare il suo personaggio innamorato della gente dei quartieri popolari: degli scugnizzi, delle prostitute, delle taverne, dei bicchieri di vino e dei taralli. Lo fa assistere perfino al gioco del pallone a bracciale (Martone dimostra di sapere che nel 1821 il Poeta aveva dedicato una canzone A un vincitore nel pallone) e intrattenersi con uno dei giocatori, Gennaro. Ecco poi la scena in cui a questo ragazzone robusto e scherzoso Giacomo narra come una favola esilarante la guerra tra i topi e le rane (stava scrivendo I paralipomeni, la continuazione del poemetto greco Batracomiomachia da lui tradotto).
Il regista mostra un Leopardi meno compreso dai signori che dai ragazzi del popolo: quando in un caffè egli sente un signore sostenere che il suo pessimismo è dovuto alle sue sofferenze fisiche esclama: “Le mie opinioni non hanno niente a che fare con le mie sofferenze personali, fatemi la grazia di non attribuire al mio stato quel che si deve solo al mio intelletto!” Sono parole scritte davvero dal Poeta, che gli sceneggiatori hanno introdotto opportunamente qui, nell’ultima parte del film, per sottolineare ancora una volta il carattere impersonale, filosofico, delle tesi esistenziali di Leopardi.
Anche la scelta di Martone di mostrare come i cadaveri del colera, epidemia che scoppiò a Napoli nel 1836, abbandonati nelle strade cittadine, capitano sotto gli occhi inorriditi di Leopardi, ha la funzione di spiegarne l’evoluzione conclusiva del suo pensiero. Da quel momento la riflessione del Poeta considera i mali, che la natura infligge, non più dal punto di vista individuale, ma in relazione a intere collettività. Inoltre, poiché per sfuggire ai contagi l'amico Ranieri lo trascina a Torre Annunziata ai piedi del Vesuvio, il Poeta di fronte ai resti di Pompei ed Ercolano riflette anche su un altro sterminio che incombe sulle associazioni e le costruzioni umane: una improvvisa eruzione vulcanica annienta intere città con tutti i loro abitanti. Sono significative le insistite immagini dei fenomeni eruttivi per rappresentare quanto si raffigurava nella mente Leopardi guardando le pendici del Vesuvio, considerando che a quella violenza non resisteva nessuna altra vita al di fuori del fiore della ginestra.
Che cosa il film comunica ai giovani (e non solo)
È comprensibile come Il giovane favoloso di Martone si rivolga particolarmente ai ragazzi e alle ragazze. L’opera ritrae un giovane eccezionale, come recita il titolo stesso, ma nello stesso tempo dai tratti tipici della gioventù di tutti i tempi, come la propensione allo scherzo e l’uso dell’ironia. Pertanto il film ci dice, senza toni retorici né didascalici, che la giovinezza in generale, se vissuta coraggiosamente e con riflessione critica su se stessi e sul proprio contesto, può far scoprire o costruire nuove, più moderne e utili visioni del mondo, anche quando queste comportano una tale discontinuità con le idee dei padri da far esplodere la ribellione.
Inoltre Martone attraverso Leopardi mostra come ci possa essere spiritualità in una visione laica del mondo, in una concezione materialista della vita umana, non antropocentrica. La virtù è, secondo il Poeta, cercare e riconoscere il vero fino in fondo, guardarlo in faccia coraggiosamente, anche se doloroso, invece di affidarsi a false credenze per trovarvi illusorie consolazioni; solo così si riesce a scoprire il valore della solidarietà.
Chi critica il regista per aver rappresentato senza reticenze gli aspetti della malattia e delle deformità del corpo di Leopardi non tiene conto dunque della necessità di rappresentare, e sottolineare, le condizioni fisiche, materiali, in cui nasce la spiritualità della poesia e della filosofia morale nell’ autore recanatese, che non faceva sconti al riconoscimento del vero, con tutti gli aspetti del “ male di vivere” di cui avrebbero parlato molti scrittori e poeti del secolo successivo. Infatti quello di Leopardi - è stato giusto mostrarlo come ha fatto Martone - è l’esempio della disabilità che contiene la ricchezza del pensiero e della sensibilità.
Ma il film ci dice anche di più, valorizzando il desiderio, che viene mostrato sempre vivo in Leopardi, anche se insoddisfatto e deluso. Ci dice che la capacità di aspirare alla felicità, quando si sta vivendo una condizione infelice, comporta un’immaginazione che crea l’utopia. Ne La ginestra questa viene descritta nella strofe che definisce saggi gli uomini che si associano in pace e stolti quelli che si fanno la guerra. E l’associazione pacifica, civile degli esseri umani, impegnati nell’essere solidali, in aiuto reciproco contro i mali della natura non è un bel desiderio utopistico anche oggi? Nel nostro tempo, di crisi in tutti i campi, manca il desiderio, la capacità di costruire utopie, specialmente a molti giovani (per esempio quelli che né studiano né lavorano), che ne avrebbero bisogno per saper dare alla propria vita scopi attivi e costruttivi. Senza utopie un ragazzo non trova neanche il coraggio di contrapporsi con il nuovo ai genitori, di ribellarsi contro le ingiustizie, di leggere il mondo contemporaneo, aiutando così la generazione dei padri a vedere quello di cui, attraverso soltanto la propria vecchia esperienza, non potrebbe accorgersi.
Martone insiste anche nell’evidenziare i sentimenti di Leopardi per le persone: l’amore e l’amicizia. Nel film, passeggiando con Giordani, Giacomo, deluso da Fanny, confessa proprio di aver bisogno soprattutto d’amore. Gli viene risposto con una rassicurazione affettiva da parte dell’amico. E poi anche Antonio Ranieri gli vuole bene, tanto da coinvolgere perfino la propria sorella Paolina nelle cure di lui. È merito del regista aver sfiorato con molto garbo (uno sguardo fulmineo di Giacomo al bel corpo nudo di Antonio) il discusso, pettegolo e ipotetico rapporto omosessuale di Giacomo con Antonio durante la loro settennale convivenza. Martone ha mostrato lo sconfinamento tra i sentimenti di un essere umano: amore e amicizia possono essere, o sono, perfettamente sovrapponibili. Tanto più che -evidentemente il regista non lo dimentica- Leopardi vive nell’età del “forte sentire”, l’età dei sentimenti, il Romanticismo, anche se egli non si è mai voluto ascrivere alla categoria dei poeti romantici.
Il giovane favoloso racconta dunque in modo corretto la biografia intellettuale del grande Poeta che è, almeno fino al Novecento inoltrato, l’unico autore della letteratura italiana che si possa definire moralista come quelli della letteratura francese. Tuttavia il film non vuole essere e non è, non va visto come una lezione su Leopardi, bensì come l’espressione del pensiero di Martone, che comunica la sua visione del mondo attraverso quel personaggio, pur attenendosi con rispetto e rigore ai dati autentici della relativa produzione scritta. Lo spettatore è invitato a una tale interpretazione anche dalla scelta della musica elettronica di Sascha Ring, voluta dal regista, che fa saltare la memoria scolastica del Poeta introducendo le note del nostro presente. Perfino la splendida fotografia di Renato Berta, che utilizza il chiaro e lo scuro come in una pittura caravaggesca, ma in inquadrature modernissime, induce a un confronto fra ieri e oggi.